(foto EPA)

I costi del reshoring e di una gara protezionista tra Usa e Ue

Mariarosaria Marchesano

Una guerra commerciale con gli Stati Uniti non è nell'interesse di nessuno e l'Europa rischia di perdere terreno come baluardo di libero scambio. Parla Pigoli (Università Cattolica)

L’Inflaction reduction act varato dall’amministrazione Biden ha aperto la strada a sovvenzioni e agevolazioni fiscali per un valore di 369 miliardi di dollari per le imprese ecologiche americane, ma solo se vengono assemblate e le parti chiave, come le batterie per auto, vengono prodotte negli Stati Uniti. L’Europa ha provato a protestare facendo presente, tramite il presidente francese Emmanuel Macron, il quale a fine novembre era in visita alla Casa Bianca, che questo pacchetto si traduce in un grosso svantaggio per l’economia europea che sta affrontando le conseguenze della guerra russo-ucraina. Ma visto che sul punto gli americani sono decisi perché ne va della supremazia che cercano di affermare sulla Cina, anche la Commissione Ue medita di rivedere le sue regole sui sussidi statali per le industrie europee

 

Una guerra commerciale con gli Stati Uniti non è nell’interesse di nessuna delle due parti nel mezzo di una vera guerra, ha detto in sintesi qualche giorno fa la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, ma sarà necessaria una risposta robusta a quella che si presenta come una minaccia per la produzione dell’area. Così il Vecchio Continente rischia di entrare in una fase di nuovo protezionismo, dopo essere stato a lungo un baluardo del libero scambio. Secondo Aldo Pigoli, docente all’Università Cattolica di analisi delle relazioni internazionali, “è un rischio inevitabile in una fase in cui due grandi potenze come Stati Uniti e Cina stanno ridefinendo i loro rapporti e l’Europa deve scegliere se schierarsi oppure cercare una propria strada, il che non è facile considerata la carenza di energia e materie prime di cui soffre”.

Pigoli spiega al Foglio che il libero mercato, così come lo abbiamo conosciuto fino a oggi, cioè su base globale, sta cambiando volto e che in futuro ci sarà posto per più liberi mercati su base regionale. “In questa prospettiva certamente giocherà un ruolo importante il reshoring, vale a dire il rientro in Occidente delle catene produttive  – aggiunge Pigoli – anche se qualcuno dovrebbe spiegare chi se ne accollerà i costi. Potranno farlo gli stati varando costosi pacchetti d’incentivi pubblici? Non è escluso, ma quasi tutti i paesi europei devono fare i conti con vincoli di bilancio, potrà farlo l’Europa a livello centrale com’è accaduto con il Recovery plan, ma occorre superare le divergenze tra gli stati. Quello che mi pare più probabile è la partecipazione della finanza globale a questo processo, come si vede dal fatto che diversi fondi sovrani stanno già sostenendo con risorse il riposizionamento di catene produttive in Medioriente, in alcune zone asiatiche e nel Mediterraneo”. 

 

Insomma, il reshoring è costoso e come fa notare sempre Pigoli in una recente ricerca realizzata con Massimiliano Frenza Maxia (Università Roma 3) per Ispi, gli Stati Uniti come l’Europa hanno costi della manifattura troppo alti e se non sarà più la Cina a ospitare le basi produttive delle catene globali del valore altri mercati sono pronti a guadagnarsi questo spazio. Un recente report di Goldman Sachs evidenzia come il fenomeno del reshoring, soprattutto negli Usa, sembra – per adesso –  limitato e come non vi sia traccia di una rinascita del settore manifatturiero nazionale. “In America così come in Europa, molte aziende si sono prudentemente messe in attesa e stanno investendo semmai sull’aumento di scorte di magazzino, soprattutto sui beni durevoli, in attesa di capire che piega prenderanno gli eventi e soprattutto di vedere invertita la tendenza all’aumento dei tassi di finanziamento. Altre aziende stanno invece lavorando per migliorare la resilienza delle loro supply chains”. 

 

Questa tendenza comincia a essere evidente anche in Italia. Una rilevazione del centro studi di Confindustria sulle strategie localizzative delle imprese dimostra come nel nostro paese si stia diffondendo un “reshoring delle forniture”, vale a dire che l’approvvigionamento di materie prime e materiali viene riaffidato a fornitori localizzati il più possibile in prossimità dell’azienda anche quando questi dovessero risultare più cari. “In pratica, le aziende cercano una rete di atterraggio che garantisca loro una maggior sicurezza delle forniture che tra pandemia e guerra in Ucraina stanno subendo ritardi – dice Maurizio Marchesini, vice presidente di Confindustria con delega alle filiere produttive e alle medie imprese – Ma per adesso il reshoring inteso nel senso pieno del termine resta un fenomeno limitato. Porsi il problema di chi pagherebbe per un ritorno massiccio degli apparati produttivi in Italia e in Europa ha molto senso. Gli Stati Uniti hanno fatto una scelta, stanziare dei soldi pubblici, di fronte alla quale mi pare che l’Europa non abbia molte alternative se non vuole restare nell’angolo. Temo, però, che, nonostante le buone intenzioni della presidente von der Leyen, i paesi del nord si opporranno alla prospettiva di socializzare altro debito costituendo un fondo sovrano finalizzato a finanziare una nuova era della produzione europea”. 

 

Che il problema sia molto concreto per l’Italia, una delle prime manifatture dell’area, si vede anche da come si sta muovendo un’istituzione controllata dal Mef come Sace, che di recente ha promosso un programma per accompagnare le aziende “nelle nuove geografie”. “Se non si fermerà l’attuale involuzione verso un mondo diviso in blocchi si accentuerà il decoupling tra Stati Uniti e Cina con una contrapposizione tra ‘Occidente’ (che include anche Giappone e Australia) e ‘Oriente’ (non solo Cina e Russia)”, si legge nel report sulle esportazioni del 2022. Ciò, però, secondo l’analisi di Sace, non si tradurrà in una fase di deglobalizzazione. “Anche in un contesto di continue tensioni tra paesi, la soluzione dovrà essere individuata nella riduzione dell’esposizione ai rischi politici con una maggiore diversificazione delle geografie di approvvigionamento e di domanda e una riorganizzazione della produzione mondiale, che non necessariamente determinerà la fine delle catene globali del valore attraverso processi diffusi di reshoring o near-shoring, quanto piuttosto un loro aggiustamento”.