Foto di Roberto Monaldo, via LaPresse 

l'analisi

Perché la destra su moneta e Bilancio è prigioniera di vecchie teorie sovraniste

Oscar Giannino

Non si tratta di conservatorismo liberale, i partiti del centrodestra italiano hanno coltivato per anni una politica monetaria che ora si riversa contro quella di Meloni e Giorgetti, che considerano come indebita scimmiottatura di Draghi

Ci sono due modi per interpretare il fastidio con cui la destra ha accolto l’audizione della Banca d’Italia sulla manovra di Bilancio. Il primo è catalogarlo come l’ennesimo incidente in cui incorre una compagine ancora disavvezza alla cultura istituzionale e che perciò s’infligge autogol. Ma c’è un altro criterio: quello storico-antropologico. La destra italiana non ha nulla a che vedere con il conservatorismo liberale che salutò come un presidio di rigore l’autonomia e indipendenza delle banche centrali dalla politica, perché solo così si poneva un freno di serietà alla monetizzazione del debito pubblico e a tassi d’interesse manipolati dai partiti. Che è esattamente ciò per cui Beniamino Andreatta avviò nel 1981 il “divorzio” Bankitalia-Tesoro. 

 

La destra italiana attuale si è impregnata di tutt’altro pensiero. Che ha diffuso nei suoi militanti, amministratori locali, parlamentari e oggi membri del governo, tre visioni “antagoniste” rispetto all’abc condiviso oggi nei sistemi occidentali di mercato: sulla moneta, sul credito, e sulle politiche di bilancio. Secondo tale impostazione la moneta è stata “scippata” al dominus che la emette e ai cui soli interessi deve rispondere, cioè lo stato e cioè chi lo amministra pro tempore. Il presunto trionfo dell’individualismo liberale e dei mercati i cui segnali sono loro a spingere il regolatore monetario indipendente a decisioni più o meno lasche o restrittive, sarebbe il più efferato golpe mondiale realizzatosi nel Novecento. Privato del potere discrezionale monetario, lo stato si è afflosciato come i rois fainéants merovingi, prigionieri di tecnocrati maestri di palazzo. E tale trappola è ancor più feroce nell’euroarea, in cui i mercati del lavoro e del welfare sono separati e la produttività è molto disomogenea, e i governi di paesi che stanno peggio su ciascuna di queste grandezze si vedono applicati criteri comuni che svuotano le manie deficiste dei politici eletti. 

 

Tutte le spinte antieuro che la destra italiana ha coltivato per anni, prima delle elezioni del 25 settembre, si fondano su questo. Ma un conto era ripeterle dai banchi dell’opposizione, tutt’altro altro è che sia un esponente del governo a dire la sciocchezza che Bankitalia è prigioniera di banchieri privati. Poiché però continuare a sognare l’eurexit è come picchiare al muro la testa per sconfiggere la cefalea, ecco che dal primo presupposto è venuto il secondo. In base a interpretazioni “disinvolte” della riserva frazionaria bancaria e della riserva obbligatoria presso le banche centrali, numerosi ispiratori di Salvini hanno negli anni contagiato la destra. Se non riusciamo a riprenderci come ancella la politica monetaria, allora creiamo dal governo “moneta fiscale”.

 

I minibot di cui si parlò a sproposito per anni, la cessione immediata per miliardi con anticipo bancario su sempre più vasta scala del superbonus edilizio, nascono dall’idea che attraverso il fisco lo stato possa creativamente creare moneta aggiuntiva. Anche il maxi condono su capitali esteri per sottoscrivere titoli di stato esentasse, un cavallo di battaglia del capo di Banca Intesa, rientrava per molti versi in tale filone. La nota della Banca d’Italia che tanto viene citata in questi giorni da esponenti della destra per difendere il Pos non più obbligatoriamente da offrire sotto i 60 euro alla libera scelta del consumatore per pagamenti digitali, nota secondo cui “l’unica moneta legale è il contante”, era in realtà un fermo richiamo di via Nazionale contro l’idea di qualunque moneta fiscale mal pensata dalla politica. Non era affatto la scomunica di transazioni digitali in euro come “moneta privata”, come si pretende a destra. 

 

Quando poi si hanno idee confuse su moneta e credito, inutile dire che i ferventi apostoli dello stato omnium rerum dominus mal sopportano che il maxi debito pregresso ereditato (a cui la destra ha riccamente concorso) limiti oggi la politica di bilancio a deficit contenuti che Meloni e Giorgetti difendono a denti stretti, ma che i loro partiti considerano indebita scimmiottatura di Draghi. Perché se i beni materiali e i redditi perdono valore nel tempo, lo stesso non dovrebbe avvenire alla moneta delle banche centrali? Era l’interrogativo che spinse Silvius Gesell, nell’improbabile repubblica bavarese dei consigli che durò pochi mesi tra 1918 e 1919, a decidere che i biglietti di banca dovessero portare un bollino del consumatore a ogni utilizzo, e dopo tot bollini la moneta decadeva, in modo che lo Stato potesse emetterne di nuova. Evitò per un soffio la fucilazione, Gesell. Non è il caso di riprovarci.