Foto di Massimo Lapenda, via Ansa 

Fuga dalla borsa

L'opa di De Agostini su Dea Capital per toglierla da Piazza Affari

Mariarosaria Marchesano

L'operazione sulla società è motivata da una maggiore flessibilità gestionale e organizzativa oltre che da un risparmio di costi, che potrà portare a un'accelerazione della strategia di investimento

Un’altra dinastia del capitalismo italiano si ritira dalla Borsa. Dopo Della Valle, che la scorsa estate ha provato, senza riuscirci, a delistare Tod’s; dopo gli Agnelli, che hanno lasciato la holding di partecipazioni Exor quotata solo ad Amsterdam; dopo i Benetton che proprio in questi giorni stanno chiudendo l’operazione su Atlantia, la famiglia De Agostini lancia un’opa su Dea Capital con l’obiettivo, anche qui, di togliere la società da Piazza Affari. Salgono così a ventuno gli addii di quest’anno a Borsa italiana-Euronext da parte di altrettante società e le motivazioni sono più o meno sempre le stesse: i costi di quotazione sono troppo alti e fuori dal mercato azionario siamo più liberi di operare. Aveva provato a spiegarlo Manfredi Catella la scorsa primavera quando ha motivato l’addio di Coima Res alle negoziazioni come “un passo necessario all’ulteriore crescita”, e ancora più esplicita è la famiglia De Agostini nell’annunciare l’opa totalitaria a 1,5 euro per azione su Dea Capital, per un esborso complessivo di 128 milioni di euro.

 

La maggiore flessibilità gestionale e organizzativa, oltre che un risparmio di costi, sono le motivazioni indicate nella nota di Nova, il veicolo finanziario di cui il gruppo di Novara si sta servendo per realizzare l’operazione. In altre parole, come società non quotata Dea Capital “avrà una maggiore flessibilità operativa e organizzativa e sarà in grado di accelerare la sua strategia di investimento e di creazione di valore”. A leggere, insomma, le ragioni che inducono le aziende a battere in ritirata sembra quasi che essere quotati oggi sia più un sacrificio che un beneficio, soprattutto in casi come Dea Capital in cui gli scambi sul titolo sono ormai molto ridotti. Nel caso specifico, però, questo ha a che fare molto col modello di business.

 

Dea Capital, che i De Agostini hanno fondato nel 2006 per assecondare una fase di diversificazione ed espansione internazionale partita alla fine degli anni Novanta dopo le origini legate all’editoria, è stata a lungo un investitore diretto, una sorta di grande private equity. Negli ultimi anni, però, Dea Capital si è consolidata come una piattaforma indipendente di “alternative asset management”, che a cascata controlla fondi d’investimento ai quali partecipano investitori terzi, che si divide in due grandi tronconi: Dea Capital real estate sgr, focalizzato sul settore immobiliare, e Dea Capital Alternative Funds, che investe nei settori più svariati.

  

Il totale degli asset gestiti attraverso questa piattaforma è arrivato a 26 miliardi di euro. Una cifra che dà l’idea di quanta carne ci sia a cuocere dalle parti di Novara. Ma sarebbe un errore ipotizzare, come suggerirebbero le indiscrezioni circolate negli ultimi tempi, che la famiglia De Agostini stia pensando a manovre sull’assetto azionario, in pratica a una vendita di quote lontana dagli occhi indiscreti della Borsa. Fonti del gruppo riferiscono al Foglio che l’opa e il successivo delisting di Dea Capital sono motivate unicamente dalla considerazione che “la quotazione non è più significativa per il tipo di business” e che il gruppo “resta fortemente concentrato sullo sviluppo”.

 

Del resto, per come è organizzata Dea Capital oggi, si capisce che è un sistema che fa perno su una rete di relazioni con investitori istituzionali nazionali e internazionali anche molto liquidi il che rende inutile la permanenza a Piazza Affari il cui fine principale è ottenere risorse per la crescita. Il ragionamento non fa una grinza ma riporta al punto di partenza. Perché tante società si stanno delistando? Il fenomeno non è solo italiano, complice la contrazione dei prezzi che sui listini di tutto il mondo sta agevolando lo shopping di società quotate da parte di fondi di private equity e sta incentivando i riacquisti di quote sul mercato da parte dei soci di controllo.

 

Negli ultimi vent’anni, secondo uno studio del Politecnico di Milano e di Intermonte, su Borsa italiana si sono quotate 448 società e se ne sono cancellate 336. Il saldo, dunque, è positivo. Ma attenzione, perché se il calcolo lo si fa prendendo come parametro la capitalizzazione, vale a dire il valore di mercato si vede che c’è stata una progressiva e consistente perdita di peso del listino tricolore rispetto ai mercati finanziari globali perché a quotarsi negli ultimi anni sono state soprattutto aziende di piccola taglia, il che rappresenta un segnale positivo di dinamismo dell’imprenditoria nostrana ma è presto per dire se c’è un capitalismo familiare in erba che sta crescendo.

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