Palazzo Mezzanotte dove si trova la Borsa di Milano (Getty Images)

Ciao ciao Piazza Affari

La grande fuga dalla Borsa

Claudio Cerasa

Da Tod’s alla Roma. E poi Atlantia, Cattolica, Autogrill, Exor e tutti gli altri. Perché le grandi aziende scappano da Piazza Affari? Appunti su un capitalismo disorientato e un paese ostile alla cultura del rischio

Ehi, ma che sta succedendo al capitalismo italiano? L’ultimo caso è stato quello di ieri e ha coinciso con una notizia importante per il mondo economico italiano. La storia forse la conoscete già: Diego Della Valle, con il suo socio francese Bernard Arnault, ha deciso di lanciare un’Offerta pubblica di acquisto sulle azioni Tod’s non in suo possesso per ritirare la sua azienda dal listino di Piazza Affari. In gergo, l’operazione si chiama “delisting” e quello di Della Valle, a capo di un’azienda che fattura circa 884 milioni di euro all’anno, è solo l’ultimo tassello di un mosaico più grande che riguarda la Borsa italiana. Da Piazza Affari andrà via, a settembre, un gigante come Atlantia. E la stessa strada hanno imboccato anche altre realtà importanti per il paese. Autogrill, che in virtù della fusione con Dufry resterà quotata in Svizzera. Un’importante società immobiliare di nome Coima Res. Una società specializzata in occhialeria di nome Fedon. Un’agenzia di rating di nome Cerved. Una famosa compagnia assicurativa come Cattolica. Una private bank specializzata nella gestione dei patrimoni famigliari di nome Banca Investis. Una squadra di calcio come la Roma. Un gigante dell’automotive come la Exor della famiglia Elkann, che ha deciso di dirottare la propria quotazione dalla Borsa di Milano a quella di Amsterdam (fisco più gentile, regole più semplici).

 

Oltre alle singole storie, poi, ci sono anche i numeri che dicono molto. Negli ultimi quindici anni, come ha ricordato pochi giorni fa sul Foglio Mariarosaria Marchesano, la Borsa italiana ha perso la bellezza di 55 miliardi di capitalizzazione. E un’altra ventina di miliardi dovrebbe essere persa con i prossimi delisting già messi in cantiere. La fuga dalla Borsa, in Italia è un fenomeno unico nel suo genere perché, come sostenuto da Giancarlo Giudici, docente del Politecnico di Milano che sul tema ha condotto una ricerca dal titolo “Sliding doors: il flusso di listing e delisting sul mercato azionario di Borsa italiana (2002-2021)”, il rapporto tra capitalizzazione di Borsa e pil, che si trova intorno al 20 per cento, resta inferiore ai livelli del 2018 e resta uno dei rapporti più bassi in Europa. Una volta inquadrato il tema, o forse il problema, non resta che chiedersi che cosa indichi la spia del delisting.

 

E la risposta si può articolare provando a rispondere a una domanda difficile: che diavolo sta succedendo al capitalismo italiano? Quattro spunti di riflessione per provare a orientarsi. Il primo punto riguarda la debolezza strutturale di Borsa italiana, caratterizzata non solo da dimensioni piccole (la capitalizzazione di Piazza Affari è circa la metà di quella tedesca e dell’area euro, un terzo di quella francese e un quarto di quella inglese) ma anche da una presenza massiccia nel listino di aziende più legate allo stato che al mercato (secondo una stima di Mf, lo stato è il più importante investitore a Piazza Affari). E più una Borsa è debole, più è soggetta alle oscillazioni del mercato e più renderà difficile alle aziende crescere come vorrebbero e come potrebbero. Il secondo punto, come ci racconta un banchiere esperto, riguarda (a) la volontà da parte di alcune imprese di proteggere il proprio capitale dalle possibili minacce esterne (opa ostili); (b) la volontà di non voler essere ostaggi di un regime regolatorio farraginoso come quello della Consob, basato più sulla cultura del sospetto (sanzioni) che sulla cultura del rischio (offrire opportunità); (c) la volontà di non dover dar conto continuamente ai propri azionisti delle scelte compiute dal management.

 

Il terzo punto, e qui andiamo al cuore della questione, riguarda una fragilità di molte imprese italiane, spesso incapaci di conquistare sul mercato i capitali di cui avrebbero bisogno sia per ragioni legate alle proprie dimensioni sia per ragioni legate alla propria struttura. Struttura che il più delle volte si presenta di fronte agli investitori: io, proprietario dell’azienda, mantengo il controllo assoluto della mia società, voi, cari azionisti, se volete comprate anche il 49 per cento, sapendo che però alla fine non conterete nulla. Il delisting offre molti spunti di riflessione sullo stato di salute dell’economia dell’Italia.

 

Ma lo spunto forse più interessante riguarda un problema spesso sottovalutato anche dalla nostra classe politica e che difficilmente troverà spazio in questa campagna elettorale. E la questione è semplice: nel nostro paese, la cultura del rischio viene stimolata o viene ostacolata? Dietro alla risposta a questa domanda non c’è il futuro della Borsa: c’è il futuro dell’Italia.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.