La statua del toro davanti all'ingresso della Borsa di Amsterdam (Ansa) 

Indagine sui capitali in fuga in Olanda

Stefano Cingolani

Una piazza finanziaria nata nel medioevo è ora il punto di approdo di moltissimi gruppi industriali, anche italiani. Quali caratteristiche hanno reso la borsa di Amsterdam preferibile a quella di Milano, Parigi e Francoforte

Ma quale Inghilterra, il capitalismo è nato in Italia ed è diventato adulto in Olanda. Altro che Londra. Firenze, Genova, Venezia e poi Amsterdam, che quando Dante scriveva la Divina Commedia era solo un villaggio di pescatori a due metri sotto il livello del mare, protetto dalla diga sul fiume Amstel. Tre secoli dopo, liberatasi dal tallone spagnolo, la città è diventata la prima piazza finanziaria al mondo, nel 1607 è stata fondata la Borsa perché la Compagnia delle Indie orientali doveva trovare i capitali per trasportare le merci attraverso gli oceani. Le cambiali le ha inventate a Prato il mercante Francesco Datini (si deve a lui persino la @ commerciale detta chiocciola), ma le azioni della borsa olandese sono state i primi titoli al portatore.

 

Là è scoppiata anche la madre di tutte le crisi finanziarie, la cosiddetta bolla dei tulipani, perché allora i bulbi del fiore coltivato fin dal XVI secolo e diventato emblema del paese, si scambiavano come i diamanti ed erano considerati un solido investimento; in quanto “concentrati di fiori futuri” sono stati un’embrionale forma di “future”. Secondo le stime degli storici il loro prezzo medio era pari a un anno e mezzo di salario per un muratore dell’epoca. A mano a mano che crescevano le ricchezze dei Paesi Bassi ormai indipendenti dalla Spagna, ma sempre contesi dalle grandi potenze, saliva anche la domanda di tulipani, finché nel 1637 la festa finì davvero malamente. Il 5 febbraio all’asta di Alkmaar centinaia di lotti furono venduti per un ammontare monetario di 90 mila fiorini (l’equivalente di circa 5 milioni di euro). Nei giorni immediatamente successivi, la febbre si tramutò all’improvviso in panico: fu sufficiente che ad Haarlem un’asta di bulbi andasse deserta per provocare vendite incontrollate e far precipitare il mercato in tutto il paese. 

 

Non è per amor della storia, però, che oggi tutti i capitalisti corrono ad Amsterdam. E non è nemmeno un colpo di coda della famosissima bolla se il debutto di Exor, la portaerei finanziaria della famiglia Agnelli, non è stato baciato dal successo (venerdì 12 agosto, primo giorno di quotazione, il titolo ha perso il 2,76 per cento). La scelta dell’Olanda come sede dei maggiori gruppi finanziari e industriali europei è una faccenda complicata che sta diventando sulfurea a mano a mano che l’onda sovranista monta anche in Italia.

 

Un tempo si parlava di fuga dei capitali: oggi siamo di fronte a una fuga del capitale, del grande capitale? A scorrere l’elenco degli italiani in maglia arancione c’è da giurare che sia così. Troviamo le tre punte dell’iceberg Agnelli: Exor, Ferrari, Stellantis; la Mediaset dei Berlusconi; la Cementir holding dei Caltagirone; la Campari di Luca Garavoglia; la Ariston di Paolo Merloni; la Illy; la cassaforte dei Pesenti (Efiparind) e quella dei Rocca (Arotec). La Ferrero sta al sicuro in Lussemburgo anche se ha la sua propaggine olandese, come la Delfin dei Del Vecchio che da lì non ha intenzione di spostarsi, mentre Luxottica dopo il matrimonio con Essilor è quotata a Parigi. Dunque, le grandi famiglie del capitalismo italiano, quelle che hanno superato la selezione di fine secolo, lasciano la patria che tanto ha fatto per loro. E’ vero che l’Olanda è nell’Unione europea, paese fondatore così come il Lussemburgo, ma come la mettiamo con “prima gli italiani”?

 

E verso la borsa dei tulipani non si muove solo il capitale privato. C’è la ST Microlectronics, società produttrice di microprocessori controllata al 50 per cento dal governo italiano e da quello francese. Troviamo anche l’Enel Finance che gestisce i servizi finanziari dell’azienda elettrica, l’Eni International, la Saipem International che controlla una trentina di società consociate. I tre gruppi a partecipazione statale non abbandonano la borsa italiana perché restano quotati a piazza degli Affari, dove ci sono anche Stellantis controllata da Exor e la stessa Mediaset. La grande fuga riguarda piuttosto il cervello finanziario e il centro di controllo, non tanto le società operative. E se di tradimento della patria dobbiamo proprio parlare, allora non sono colpevoli solo i magnati dell’economia: i Rolling Stones sono sbarcati ad Amsterdam nel 1972, gli U2 li hanno seguiti nel 1981. 

 

A Prins Bernhardplein 200, circa quattro chilometri dal centro di Amsterdam, un palazzo in vetro e cemento ospita ben 2.812 società provenienti da tutto il mondo. Qui ha sede Intertrust, colosso della creazione e domiciliazione di società fondato nel 2005. I suoi esperti si occupano di tutto ciò di cui un’attività ha bisogno: formazione, assistenza legale, contabilità e amministrazione, transazioni finanziarie, proprietà intellettuale, conformità alle norme e servizi di tesoreria. Se ciascuna di quelle aziende, alcune delle quali veri e propri giganti internazionali, dovesse impiegare anche solo qualche decina di dipendenti in Olanda, bisognerebbe costruire un intero grande quartiere per ospitarli.

 

Ma non tutto si concentra lungo i placidi canali, anzi ormai i tentacoli delle grandi multinazionali si estendono in buona parte del paese. A Leida c’è l’Ikea, a Hilversum ben 26 società della Nike, Google ha scelto Zuidas, un’area periferica di Amsterdam diventata distretto finanziario di punta dov’è ha sede anche l’Agenzia europea del farmaco. Vicino allo Stadium Arena, base dell’Ajax, la squadra cittadina e campo dove gioca la nazionale di calcio, è sorta un’enorme concessionaria della Tesla. Basta entrare per scoprire che è molto di più, perché al suo interno c’è il domicilio fiscale di quattro società della casa automobilistica americana fondata da Elon Musk e specializzata in auto elettriche.

 

Il 6 novembre 2018 il ministero delle Finanze olandese ha inviato un rapporto al Parlamento dell’Aja nel quale si legge che nei Paesi Bassi esistono circa 15 mila società finanziarie speciali (spesso note come società “bucalettere”) attraverso le quali passano circa 4.500 miliardi di euro all’anno. Soltanto una piccola percentuale di questo importo è soggetto a tassazione: appena 199 miliardi. L’organizzazione Tax Justice Network ha collocato l’Olanda al quarto posto tra i paesi del Corporate Tax Haven Index, che classifica i principali paradisi fiscali per le multinazionali viene subito dopo le Isole vergini britanniche, Bermuda e Cayman. Il paragone in realtà andrebbe fatto con il Delaware, il piccolo stato americano dove trova rifugio buona parte delle multinazionali a stelle e strisce, per ragioni molto simili.

 

Non è un vero paradiso, ma poco ci manca: niente imposte sulle vendite, non importa se la posizione fisica di un’azienda è nello stato o meno; nessun acquisto è soggetto a tassazione; l’aliquota sui redditi prodotti nello stato è di appena l’8,7 per cento; ma il vero asso nella manica è l’anonimato garantito ai soci e agli amministratori, dunque è il luogo giusto per domiciliare una corporation. La Ue come gli Usa? Solo che non c’è un mercato finanziario unico e l’Unione europea non è uno stato federale, non ancora, e forse non lo sarà mai. E questo complica terribilmente le cose. 

 

I vantaggi fiscali non sono certo indifferenti. L’aliquota ordinaria in Italia al 24 per cento in Olanda è del 20 fino a 200 mila euro, poi sale al 25. Non concorrono alla formazione del reddito imponibile né gli utili distribuiti da società non residenti né le plusvalenze derivate dalla cessione delle partecipazioni; interessi, royalties, dividendi in uscita non sono tassati; lo stesso vale per le società controllate estere. Insomma, è possibile dall’Olanda costruire una catena societaria internazionale sostanzialmente esentasse. Le holding con tutte le loro partecipazioni in giro per il mondo trovano un porto ben protetto. Ma non è solo il fisco ad attirare uomini e capitali. C’è anche la flessibilità della governance societaria, c’è un apparato giudiziario snello e sburocratizzato, c’è soprattutto un sistema finanziario dove è facile trovare capitali a costi bassi. E poi ci sono loro, i professionisti delle multinazionali: uno stuolo di fiscalisti, commercialisti, notai, avvocati, advisor e amministratori che rendono fluidi e rapidi i meccanismi di creazione e di gestione delle holding. Qui entra in campo il diritto societario: più semplice, certo, meno burocratico, favorisce alleanze, fusioni, acquisizioni, protegge la proprietà. 

 

Anche in Olanda vale il principio di “un’azione un voto”, tuttavia esistono deroghe importanti come l’uso di azioni privilegiate o meglio diritti di voto plurimi che non sono proporzionali alle quote possedute. In inglese si chiamano loyalty shares, in prosa significa che chi comanda ha il potere di perpetuare il proprio comando. Un capitalismo oligarchico, dunque. In Olanda come negli Stati Uniti vengono usate ampiamente azioni di tipo A e di tipo B con diritti e poteri diversi. La nuova Mediaset quotata ad Amsterdam e chiamata MFE (Media for Europe) ha diviso il capitale sociale in azioni ordinarie A e B. Ogni azione ordinaria A avrà un valore nominale pari a 0,06 euro e ogni azione ordinaria B pari a 0,6 euro. Inoltre, ogni azione ordinaria A darà diritto a un voto e ogni azione ordinaria B darà diritto a dieci voti. Entrambe le categorie avranno i medesimi dividendi e gli azionisti godranno di pari trattamento in caso di eventuale futura offerta pubblica di acquisto volontaria o obbligatoria, clausola importante anche in vista dell’uscita di Vivendi dal capitale. Il sistema a due azioni, spiega Mediaset, “fornirà una maggiore flessibilità per il finanziamento di eventuali future operazioni di Merger & Acquisitions”, evitando in altre parole che il socio di riferimento perda il controllo.

 

In Italia esistono le privilegiate che hanno diritto di voto solo nelle assemblee straordinarie, e vengono usate da chi, in caso di aumento di capitale, non vuol vedere diluirsi il proprio potere. Al massimo possono rappresentare il 50 per cento del capitale e non debbono dar luogo a un “patto leonino” cioè un accordo in base al quale uno o più soci vengono esclusi dagli utili. Le privilegiate compensano lo svantaggio in termini di governance della società con vantaggi monetari rispetto alle azioni ordinarie in termini di prezzo, dividendo, priorità nei casi di liquidazione. La riforma del 2003 ha introdotto una regolamentazione precisa. Vengono utilizzate spesso ampiamente e tuttavia non hanno l’appeal di Amsterdam dove questo meccanismo s’incrocia con tutti gli altri benefici ambientali.

 

Con la Brexit è aumentata la forza magnetica della borsa olandese rispetto alla City di Londra. A Parigi bisogna fare i conti con il sovranismo francese, Francoforte è ancora relativamente limitata e il sistema tedesco è rigido e complicato, Madrid è provinciale, piazza degli Affari soffre di nanismo ed è dominata dalle aziende a partecipazione statale e dalle banche. Eni, Enel, Generali, Intesa, Unicredit sono le top five. Nelle posizioni di vertice si è inserita Stellantis nata dal matrimonio Fiat Chrysler e Peugeot Citroën, ma esce Atlantia (18,787 miliardi) dopo che i Benetton hanno lanciato un’offerta pubblica. Lo stesso accadrà a un’altra società della famiglia di Ponzano Veneto, l’Autogrill (2,48 miliardi) che si fonderà con la svizzera Dufry.

 

Il delisting, cioè il totale possesso proprietario abbandonando la quotazione, è diventato più frequente negli ultimi tempi. A maggio è stata la volta di Falck Renewables (2,7 miliardi di capitalizzazione). Due settimane fa anche la famiglia Della Valle ha deciso di riprendersi del tutto Tod’s che vale 1,10 miliardi di euro. Le Assicurazioni Generali hanno ritirato la Cattolica Assicurazioni (1,54 miliardi) dopo averne acquisito il 95 per cento e lo stesso è accaduto a Banca Carige con l’opa lanciata da Bper. In poche settimane se ne sono andati 47 miliardi di capitalizzazione. 

 

Borsa addio, anche se non sta andando così male: nell’ultimo mese ha quasi recuperato le perdite del semestre precedente e in generale le società che si sono quotate nell’ultimo decennio hanno avuto un rendimento medio positivo del 31 per cento a partire dal terzo anno. Borsa addio perché troppo angusta: con un valore pari a 660 miliardi di euro, capitalizza circa un terzo del prodotto lordo italiano; l’Olanda e la Germania arrivano al 50 per cento, la Francia supera il 60, Gran Bretagna, Svezia, Danimarca vanno ampiamente al di là del 100 per cento (senza contare il record della Svizzera che con il 230 per cento batte sia Singapore sia Wall Street).

 

Ma Borsa addio perché l’Italia non è un paese per vecchi e nuovi capitali? Il sovranismo porta a un rafforzamento dello stato padrone. E poi circolano proposte come quelle della Lega che vuole tornare alla legge bancaria del 1936, introducendo una barriera tra banche d’affari e banche commerciali alle quali dovrebbe essere di nuovo vietato di detenere partecipazioni industriali e operare liberamente in borsa. Ciò tradisce una cultura lontana dal mercato, ma paradossalmente finisce per favorire le banche d’affari americane e la Mediobanca. E’ stato grazie a quella legge che Enrico Cuccia è diventato il dominus del capitalismo italiano, una posizione privilegiata finita con le nuove regole introdotte dalla riforma del 1993.

 

L’esempio di Amsterdam dimostra che per rendere più attraente una piazza finanziaria occorre avere la cultura del mercato e semplificare la vita delle società. La Consob, l’autorità italiana di controllo, il 4 agosto ha varato tre nuovi provvedimenti tesi a ridurre i tempi e gli ostacoli per le quotazioni. Intanto Borsa italiana ha messo mano a uno snellimento della burocrazia e a un aumento dell’efficienza nel gestire l’intero processo di ammissione. 

 

Negli ultimi dieci anni ha preso piede il mercato Egm, riservato alle piccole imprese. Vale appena 11,6 miliardi di euro, anche se è in crescita, anzi se non fosse stato per le sue 220 Ipo (acronimo di offerta pubblica iniziale), piazza degli Affari piangerebbe calde lacrime, visto che il mercato principale ha perso un terzo delle società quotate. C’è un problema di incentivi fiscali da introdurre o confermare come il credito d’imposta per le spese legate alla quotazione, però non basta. La politica non si fa distribuendo solo sussidi, ma gestendo in modo diverso le istituzioni e combattendo vere e proprie battaglie culturali. Portare a piazza degli Affari le imprese e il grande risparmio degli italiani è davvero un vasto progetto.

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