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Eccellenze italiane al bivio: aperte al mondo o destinate al declino

Stefano Cingolani

Effervescenza di acquisizioni e fusioni, voglia di investire in Italia. Indagine sul paese che corre

Ce n’è una al giorno. Mentre parla, l’avvocato di un importante studio sente un bip sul cellulare, guarda il messaggio e sospira: ce n’è un’altra, un’ultima operazione è partita. Riguarda il gruppo Cimolai che, in difficoltà, s’è rivolto alla banca Lazard per trovare un socio estero che lasci comunque alla famiglia un ruolo nel gruppo metallurgico friulano: con un fatturato di mezzo miliardo ha una esposizione presso le banche di 400 milioni di euro. Non si può sapere se andrà in porto, ma il mercato è in grande movimento e protagoniste sono le medie aziende, quelle del quarto capitalismo. Le nicchie fanno gola e quelle italiane sono nicchie di eccellenza assoluta nei settori più diversi: meccanica, chimica, filiere tessili e dell’abbigliamento, alimentare. Non c’è crisi per i fondi e le banche d’affari, anzi. Scendono i valori delle quotate in borsa e anche delle non quotate, inoltre le buone occasioni aumentano, da un lato sotto la pressione dei costi e dall’altro per la difficoltà di affrontare una internazionalizzazione senza la quale non c’è crescita e spesso nemmeno sopravvivenza. “Prima la Lombardia”, con un miliardo e 380 milioni di indiani o un miliardo e 400 milioni di cinesi, è un non senso per l’industria tricolore; lo è anche “prima l’Italia e gli italiani”.

 

E la tempesta perfetta? E i grifagni avvoltoi anglosassoni? E i neocolonialisti francesi o i panzer tedeschi? E il deserto economico che ci aspetta? Stiamo ai fatti, le elezioni sono passate. L’effervescenza di fusioni e acquisizioni è un segnale positivo. Vuol dire che c’è voglia di investire perché la struttura manifatturiera è sana e vale la pena di lavorare in Italia. L’equivalente nostrano del tedesco Mittelstand è uscito più saldo dalla pandemia ed è pronto ad affrontare la nuova crisi. Ne sono convinti gli analisti delle maggiori banche. Il paragone con il triennio nero 2008-2012 è fuorviante. Anzi, ci troviamo in una situazione opposta.

    
In primo luogo oggi c’è grande liquidità, raddoppiata negli ultimi dieci anni. Le imprese hanno preso in prestito 650 miliardi di euro e hanno 400 miliardi depositati in conto corrente. Esiste dunque un ampio cuscinetto che consente di evitare la corsa ai fallimenti che anticipa la cessione o addirittura la chiusura. L’indebitamento si è ridotto radicalmente nell’ultimo decennio, il rapporto tra capitale proprio e quello preso in prestito è migliorato nettamente. Le banche hanno più patrimonio e meno crediti deteriorati. Certo, l’inflazione getta allarme, ma sarà sotto controllo in primavera, la crescita rallenta velocemente senza scendere sotto zero, la domanda avrà una fase di stasi, però l’alto livello di risparmi tenuti dalle famiglie in forma liquida fa pensare che ripartirà.

 

Abbiamo fatto la media delle previsioni più autorevoli. Nessuno può predire il futuro, la guerra induce ansietà, anzi angoscia se l’apocalisse nucleare è una minaccia concreta come ha detto Joe Biden. Il presente tuttavia è diverso da quello che il circo mediatico-politico dipinge. Rimbalzo del fatturato nel 2021 (+19 per cento) e prospettive di crescita anche per il 2022 (+6,3 per cento), ecco quello che si è visto finora nel tessuto della manifattura italiana. Più del 60 per cento delle medie imprese prevede di investire entro il prossimo triennio nelle tecnologie 4.0 e nel green; il 52 per cento che l’ha già fatto conta di superare i livelli produttivi pre Covid entro quest’anno, spiega l’indagine condotta dal servizio studi Mediobanca insieme a Unioncamere.

 

La destra suona il corno da caccia contro gli stranieri che si affacciano alle Alpi, eppure i barbari non sono alle porte. Attrarre investitori è salutare. Si fanno avanti i fondi di private equity, anche quelli italiani: l’ultimo esempio è la Eataly di Oscar Farinetti acquistata dall’Investindustrial di Andrea Bonomi. Prendiamo la farmaceutica. L’Italia è la numero uno in Europa e tre quarti del fatturato prodotto in casa proviene da aziende a capitale straniero. Ancora risuonano le grida di dolore per la (s)vendita di Parmalat ai francesi di Lactalis: oggi è il primo gruppo agro-alimentare e produce in Italia più di Barilla e Ferrero. E le birre? Chi conosceva la Ichnusa fuori dalla Sardegna? E’ diventata un marchio internazionale grazie alla Heineken che possiede anche la Moretti. Peroni della giapponese Asahi o Poretti di Carlsberg, sono protagoniste della innovativa fioritura della birra italiana. Dalla Ducati ai Baci Perugina, dalla San Pellegrino alla Pernigotti acquistata ad agosto da JP Morgan (“una storia a lieto fine”, riconosce il Sole 24 Ore) per non parlare dei marchi del lusso o della Edison, tutti esempi di crescita non di abbandono. 

 

  

Sull’altro piatto della bilancia ci sono multinazionali come la Whirlpool, e nessuno nega che esistano rischi seri per la sicurezza quando si toccano l’energia, i dati, l’industria militare e lo stesso risparmio nazionale, tuttavia se mettiamo in fila i risultati, il bilancio è positivo. Chi compra lo fa non per chiudere e liquidare le aziende, ma per guadagnarci su facendole produrre di più e meglio. La mobilità, il cambio di proprietà, l’arrivo di capitali, idee, cultura imprenditoriale nuova e più moderna, tecnologie, sono tutti vantaggi da apprezzare e sfruttare.

  

Nell’ultimo decennio, 210 medie imprese italiane sono passate in mano straniera, un quinto acquistato da americani, il 13,3 per cento da tedeschi, il 10,8 da francesi, il 9,4 da svizzeri e l’8,9 per cento da britannici. E i cinesi? Appena il 5,9 per cento. Il “pericolo giallo” è meno pericoloso o c’è una resistenza a vendere a concorrenti tanto aggressivi? Probabilmente l’uno e l’altro. Ad attrarre gli investitori esteri è la qualità, la specializzazione, ma anche la maggiore produttività per addetto: nelle imprese che impiegano da 50 a 249 dipendenti è nettamente superiore a quelle delle concorrenti francesi e tedesche. Gli svantaggi sono le dimensioni (il nanismo non è superato), i costi di produzione, l’ambiente esterno, dalla Pubblica amministrazione alle infrastrutture.

  
Anche le aziende italiane si muovono verso l’estero. E qui occorre sfatare un altro luogo comune. Uno studio della banca Hsbc e dell’Università di Padova su 800 medie imprese mostra che solo un quinto delocalizza per tagliare i costi, il 58 per cento lo fa per trovare sbocchi di mercato. Secondo l’indagine Mediobanca, l’88 per cento delle aziende campione non possiede siti produttivi, ma circa la metà ha fornitori esteri e più di un terzo sta valutando acquisizioni dentro e fuori i confini. Non stiamo assistendo a una ritirata, tanto meno a una disfatta. Si tratta pur sempre di uno scambio ineguale? Se prendiamo l’immobiliare o la finanza è vero piuttosto il contrario. Per quel che riguarda le attività industriali, invece, prevalgono le vendite anche perché le imprese italiane preferiscono acquisire partecipazioni di minoranza piuttosto che assumere il controllo diretto e totale. Molte sono le ragioni, diverse a seconda dei settori e della taglia. Nel mondo del “quarto capitalismo” è sempre forte la volontà di mantenere il controllo per lo più su base familiare, anche se in questi anni è diventato più diffuso l’ingresso di manager esterni ai quali affidare la gestione. Il passaggio generazionale rimane il tallone d’Achille, cresce però la consapevolezza che deve essere affrontato per tempo non più solo su base patrimoniale: un’impresa non è la roba, è un organismo complesso. 

  

Le eccellenze italiane vanno trattate con cura, rafforzate, moltiplicate, aperte al mondo, non salvate con operazioni di politico imperio. Il fisco è uno strumento importante. Le medie imprese pagano più delle grandi soprattutto nel sud dove le regioni tartassano le aziende per finanziare le loro spese. I sostegni sono stati preziosi, il Pnrr o gli incentivi di Industria 5.0 offrono nuove chance. C’è un tessuto da consolidare, favorendo l’afflusso di capitale, la doppia transizione, digitale ed ecologica, la crescita dimensionale. Altro che chiudere i confini. Guai a usare il golden power ormai esteso praticamente a quasi tutti i settori, come un manganello. Allora sì che l’industria italiana, sganciata dalla sua naturale proiezione internazionale, staccata dalle filiere che la integrano in Germania, in Francia, ma anche negli Stati Uniti o in Estremo oriente, sarebbe destinata al declino.

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