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Il capitalismo familiare finalmente al passo con i tempi. Uno studio

Roberto Mania

L’ossatura del modello di sviluppo italiano è destinata a restare quella della media impresa di proprietà familiare. Una ricerca della Bocconi mostra come le aziende di questo genere abbiano reagito meglio alla crisi della pandemia. Un modello che negli ultimi decenni ha superato il miliardo di fatturato l’anno

Ci salverà (ancora) il capitalismo familiare. Stiamo entrando nel tunnel della recessione spinti da uno choc energetico senza alcun precedente. Aree del paese rischiano la deindustrializzazione mentre la deglobalizzazione ridisegna le traiettorie delle catene del valore.

  

Nulla sarà come prima, ma l’ossatura del nostro modello di sviluppo è destinata a restare quella della media impresa familiare. Diventata – nella sua componente più dinamica – assai più resiliente delle altre, però. Ha scommesso sull’innovazione, a fronte della sua atavica predisposizione alla bassa produttività; ha accettato i manager esterni; si è piegata alle acquisizioni necessarie per crescere di dimensione; ha ceduto quote aziendali; si è aperta ai capitali esterni per non dipendere eternamente dalle banche, magari quelle locali scarsamente efficienti; ha sviluppato la sua tradizionale responsabilità sociale improntando buone relazioni industriali e rafforzando il rapporto con il territorio. E’ rimasta ancorata nei settori produttivi tradizionali, ma ha abbandonato la finanza, Mediobanca, la politica, i partiti e un po’ anche la Confindustria romanocentrica. Un po’ è la rivincita dal capitalismo familiare o anche l’affermazione del nuovo capitalismo familiare senza alcuna tentazione egemonica. Un capitalismo leggero? Sì, ma è quello che abbiamo e che avremo, con tutti i suoi limiti storici ma anche i suoi nuovi pregi. Mettiamoci l’anima in pace perché le grandi imprese, quelle che ancora fanno la differenza nel capitalismo e nella competizione globale e che hanno guidato la nostra industrializzazione, non le avremo più. Va da sé che i padroni restano padroni, con il loro cinismo e le loro piccinerie. Nessuno, dalle nostre latitudini, assomiglia a Steve Jobs; il capitalismo italiano non si è improvvisamente “illuminato” ma almeno una parte di esso sta provando a mutare abito. Questo è il punto. Per questo siamo ancora la seconda economia manifatturiera d’Europa.

  

Sono molti i segnali del cambiamento. Da ultimi, sono interessanti quelli che emergono da una ricerca condotta da due docenti della Bocconi, Fabio Quarato e Carlo Salvato, “La resilienza delle imprese familiari e delle famiglie imprenditoriali”: le aziende di proprietà di una famiglia hanno reagito meglio alla crisi provocata dalla pandemia. Perché? Perché c’era la famiglia. Che ha salvaguardato i livelli dell’occupazione, ha spinto sull’innovazione, ha guardato a nuovi mercati sfruttando la maggiore flessibilità, anche nei processi decisionali, di un’impresa di medie dimensioni rispetto, per esempio, alle grandi multinazionali. Fabio Quarato parla di “due determinanti familiari che hanno amplificato la resilienza aziendale”. Da una parte l’approccio e la visione necessariamente positivi dell’imprenditore, che anche nelle crisi deve cercare le opportunità; dall’altra la capacità o l’attitudine di gestire l’imprevisto fino a ricondurlo alla normalità, e il trasferire questa capacità a tutta la struttura aziendale, a cominciare dal management. “La famiglia – spiega il docente della Bocconi – ha amplificato la resilienza delle imprese”. La proprietà familiare come fattore di dinamismo e non come zavorra. E’ questa la novità.

 

La crisi del 2008-2009, secondo Quarato, segna lo spartiacque. E’ lì che un pezzo di capitalismo familiare capisce che il cambiamento va accelerato se si vuole restare competitivi e restare aggrappati alle lunghe catene del valore. I più lungimiranti si erano già messi sulla scia della internazionalizzazione. Molti avevano già realizzato i passaggi generazionali, senza più gli scontri di un tempo ma con l’attenzione per passare le redini a chi era davvero in grado, per formazione e attitudine, di guidare un’azienda. Il 30 per cento delle aziende familiari con oltre 20 milioni di fatturato (circa il 65 per cento di tutte le imprese italiane) ha oggi un amministratore delegato esterno. Per quanto ancora insufficiente è una percentuale significativa in un sistema gestionale che tradizionalmente e con testardaggine porta a concentrare tutto nelle mani della famiglia. Si consideri che negli altri paesi, dove comunque è importante la presenza del capitalismo familiare, la percentuale di management composto tutto da membri della famiglia scende drasticamente: in Francia al 26 per cento, in Gran Bretagna addirittura al 10 per cento. Negli ultimi decenni molte aziende familiari hanno superato la soglia di un miliardo di fatturato l’anno. L’hanno fatto acquisendo, aumentando la dimensione, ricorrendo anche alla quotazione per raccogliere i capitali necessari. L’hanno fatto senza la sponda della politica, anche perché di politica industriale ci sono stati solo accenni con il piano Industria 4.0. Ecco, questo è un altro cambiamento importante.

 

“Sono imprenditori scollegati dalla politica”, dice Quarato. Sì, spesso hanno rapporti stretti con i poteri locali, ma l’intreccio perverso tra politica e imprenditori tende davvero a scolorire. Lo spazio dello scambio, grazie anche al processo di integrazione europea, si è fortemente ridotto tanto che – semmai – la sponda che serve è appunto quella di Bruxelles più che quella di Roma. E questa nuova specie di capitalisti familiari è sempre più “scollegata” anche dalla Confindustria nazionale. Per la verità in diverse occasioni esponenti di questo nuovo ceto imprenditoriale hanno provato la scalata di Viale dell’Astronomia ma finendo – forse non a caso – sconfitti. E’ stato così per Alberto Vacchi, battuto dal piccolo imprenditore Vincenzo Boccia, e poi per Giuseppe Pasini, superato dal micro imprenditore Carlo Bonomi. Precedente a entrambe queste sfide, è stata quella tra “pari”, Alberto Bombassei e Giorgio Squinzi che divenne presidente dopo Emma Marcegaglia. Chi fa business sui mercati internazionali ha sempre meno tempo da dedicare alle diatribe della lobby nazionale. Lì – per dirla con l’avvocato Agnelli – lo spazio è concentrato nelle mani dei “professionisti di Confindustria”. Probabilmente anche in questo atteggiamento c’è una parte del declino di rappresentanza della stessa Confindustria.

 

E scollegati sono anche dalla finanza. La battaglia dei soci industriali, Francesco Caltagirone e Leonardo Del Vecchio, per il controllo di Generali è forse l’ultima di un’altra stagione. Meglio occuparsi della propria “multinazionale tascabile” anziché cercare, a suon di compromessi e conflitti di interesse, un posto nel cda di Mediobanca. E’ un cambio anche culturale di un ceto industriale che non prevede leader, non fa squadra, non ha consapevolezza di classe, è mobile (come ormai tutto l’elettorato) nelle sue scelte partitiche. Un pezzo di nuova classe dirigente, attori di un nuovo possibile modello, che può anche non piacere per il suo disincanto e il suo disimpegno politico. Ma che certo rappresenta in qualche modo l’evoluzione di quel fenomeno dei distretti industriali che – per dirla con Romano Prodi come riporta Marco Fortis nel suo “Il made in Italy” di qualche anno fa – costituì “l’unica innovazione socioeconomica che il nostro paese abbia sviluppato e portato all’attenzione del mondo intero nel secondo dopoguerra”. E d’altra parte, prima o poi, arriverà proprio un nuovo dopoguerra.