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Un riepilogo

Breve storia del caos energetico a Piombino

Raffaele Romanelli

Le tensioni tra globale e locale arrivano qui. Dai secoli del carbone alle trasformazioni geopolitiche agli anni della folle decrescita “Nimby”. Perché l’Italia non ha strategie

I problemi del mondo convergono su Piombino? Trentamila abitanti, cittadina di antico, antichissimo insediamento, orgogliosa signoria indipendente dal 1400, nei secoli variamente contesa tra Pisa, Firenze e lontane potenze imperiali, solo agli inizi dell’Ottocento perse per sempre l’indipendenza. Immaginiamo una nave di 293 metri, larga 40, ormeggiata nel suo porto. È la rappresentazione iconica di uno scontro di civiltà nel quale si fronteggiano l’ineludibile necessità di una economia nazionale di approvvigionarsi di gas, e l’identità di una comunità portuale, con la sua storia e i suoi equilibri. 

 

Bisogna fare qualche passo indietro nel tempo. Tutte le società nella storia si sono misurate con il bisogno e la disponibilità di energia: acqua, vento e sole, legname, pietre e minerali. Tuttavia, da poco più di duecent’anni – non tanto tempo fa, in fondo –, da quando in Scozia furono inventati alcuni marchingegni – spoletta volante, filatoio idraulico e telaio meccanico, poi una macchina a vapore – sono cambiate, con le fonti di energia, distanze e misure. Le nuove macchine erano di ferro, di ferro le prime ferrovie, e presto lo furono gli scafi. E divoravano carbone. La Gran Bretagna ne era ricca, ne era ricco il sottosuolo di alcuni altri paesi, ma non di tutti. Si ridisegnarono la geografia e il destino di molti. 

 

Per un secolo, un secolo e mezzo, soltanto una gigantesca globalizzazione di tipo coloniale ha potuto tenere insieme il mondo. Solo un esempio: la materia prima per l’industria tessile, il cotone, non cresce in Gran Bretagna, e allora in Egitto, nell’Africa subsahariana, nelle regioni meridionali degli Stati Uniti, interi popoli furono piegati a martoriare la terra e i loro corpi lavorando nelle piantagioni, mentre mercati di sbocco per le merci finite furono creati distruggendo le industrie cotoniere locali, come quella indiana, un tempo celebre per le sue cotonine. Agli inizi del ’900, dopo il carbone, vennero altri combustibili fossili, il petrolio, il gas naturale. E di nuovo si trasformò la geografia: distese di pozzi petroliferi occuparono il Midwest americano, la penisola araba e il Golfo persico, la Persia e la Russia. Oltre agli Stati Uniti, pochi di questi paesi ricchi di giacimenti riuscirono a costruire una propria base industriale. Ci riuscì la Russia, a costi umani enormi. Gli altri rimasero vittime, o beneficiari, di asimmetrie e squilibri.

 

Squilibri che penetravano le strutture intime della società. Questa era la novità. Grandi traffici e globalizzazioni c’erano stati ben prima. Basti pensare agli effetti dell’oro e dell’argento americano sulle economie europee nel Cinquecento, o dei traffici con le Indie. Quei grandi traffici muovevano le finanze, le flotte e gli eserciti, ma si muovevano in circuiti propri, che coinvolgevano la società intera solo quando imponevano prelievi fiscali, o reclutamenti di uomini – cose anche crude e devastanti, ma che non modificavano le fibre intime dell’ordine sociale, che da quei fenomeni rimaneva separato, magari sottomesso, ma separato, delimitato non solo negli spazi, ma negli uomini e nelle regole, le regole appunto dei circuiti mercantili, della “lex mercatoria”.  

 

Da quando però – conseguenza travolgente della rivoluzione industriale – la produzione di beni primari ha invaso la società, che è diventata una “società di mercato”, tutto è in vendita, uomini e merci, tutto è cambiato. Ce lo hanno ben spiegato in tanti, da Marx a Polanyi. Non ci sono spazi sociali sottratti alla grande trasformazione. Anche per questo l’arrivo di una grande nave in un piccolo porto è un segno incisivo dei tempi, come lo sono gasdotti e metanodotti, trafori e viadotti ferroviari, grandi dighe e ponti, monumenti del moderno che investono città e villaggi.

 

È perciò impossibile distinguere le grandi questioni di politica internazionale dalle minute questioni della politica locale, il mercato globale dell’energia dal porto di Piombino. Un aspetto del problema è spesso disatteso in questi giorni, i giorni dell’emergenza. L’aggressione russa all’Ucraina ha messo momentaneamente in mora certe strette alleanze con la Russia, paese invasore, nemico della democrazia e dell’Occidente. La necessità di diversificare le fonti di approvvigionamento sta portando a non guardare troppo per il sottile nello stringere accordi con paesi di dubbia, anzi nessuna, fedeltà occidentale e democratica. Questo è il punto: i giacimenti delle fonti di energia ai quali ci rivolgiamo sono tutti in paesi estranei, o avversari, della democrazia liberale (del sostantivo e dell’aggettivo faccio tutt’uno, trascurando qui le democrazie illiberali, che pure hanno un ruolo in questa storia).

 

Esiste insomma una stretta, inscindibile correlazione tra la società di mercato e la democrazia liberale: entrambe hanno le radici nella società civile, nelle tradizioni civiche, nella geografia degli insediamenti cittadini. 
In questo senso il problema di politica internazionale – chiamiamolo problema macro – è anche micro. Lo sottolinea esemplarmente il duplice significato della parola “mercato” con la quale indichiamo sia il luogo vicino casa dove andiamo la mattina a comprare la frutta e il pesce – che è cosa diversa dal supermercato –, sia l’entità astratta, senza luogo né misura, che domina i nostri destini (e che a rendere più minacciosa, spesso pluralizziamo: i mercati).

 

La dialettica, la tensione, tra i due mercati, tra quello di quartiere e quello globale, ha il suo equivalente, la sua proiezione, nella struttura degli insediamenti e dei poteri: da un lato il borgo, il rione, la città, gli spazi sociali che si estendono fin dove il nostro sguardo e la nostra quotidianità ci consentono di vedere e di vivere, dall’altro lo Stato, le leggi, realtà impersonali, superiori e distanti. 

 

Fu questo il nodo dell’unificazione italiana, paese di antichi insediamenti e di mancata modernità, dove nell’Ottocento fu attivato un ordine moderno fatto di strade, scuole, collegamenti ferroviari, ospedali, stazioni di polizia, uffici postali e quant’altro che si vollero imporre a borghi antichi e antiche città, che, a differenza di molti altri paesi “in via di sviluppo”, conservarono molto delle loro antiche configurazioni. A queste si deve anche se tra i paesi che hanno saputo entrare nella competizione industriale, ritagliarsi un proprio spazio, l’Italia, late comer, è stato tra i più virtuosi. Povera di fonti di energia ma ricca di ingegni, di capacità imprenditoriali, di un tessuto civile denso e articolato, dopo essersi dato con il 1860 un ordinamento costituzionale e costruito un “mercato nazionale”, ai primi del Novecento ebbe il suo take off specializzandosi nelle industrie di trasformazione.

 

I monti e i corsi d’acqua consentirono qualche avanzata sperimentazione nell’energia idroelettrica, una base per una industria siderurgica e meccanica. Come potesse avvenire che un paese dove ancora nel ’900 “mentre era ancora comune rischio ammalarsi di malaria e morirne, e non raro era il verificarsi di tumulti per il pane di manzoniana memoria”, come poté avvenire che in quel paese “grandi imprese mobilitassero risorse per applicare le tecnologie industriali più avanzate”, un paese dove solo le rimesse degli emigranti consentirono di finanziare le importazioni, come potesse quel paese recuperare in meno di un secolo le distanze che lo separavano dai paesi di prima industrializzazione e raggiungere posizioni di primato, come potesse avvenire tutto ciò è problema su cui si sono cimentati gli storici dell’economia (le parole citate sono di uno di loro, Franco Bonelli, e risalgono al 1978). 

 

Come che sia, nella estenuante trattativa tra antico e moderno ebbe una parte decisiva la mediazione politica, la politica e a lungo i partiti, nella loro vocazione storica di portare al centro le esigenze e le visioni della periferia, e di diffondere alla periferia le visioni del centro. 

 

I partiti. Scorrendo le cronache di questi giorni si vede che tutti i partiti, dalla Lega ai Cinque stelle, dal Pd alla Sinistra italiana, con il dovuto contorno di ogni sorta di associazioni ambientaliste, da Greenpeace a Legambiente e sindaco in testa abbiano aderito alla protesta contro l’arrivo della nave a Piombino. Senz’ombra di progetto, di visione. Espressione di una comune, totale afasia, si sono contrapposti i disarmanti schematismi della direttiva centrale e dell’opposizione locale. Dal centro, vista l’urgenza di attivare i rigassificatori c’è stato chi ha ipotizzato, estrema ratio, di militarizzare gli impianti. Esercito? Puzza di fascismo, hanno subito militato i militanti della sinistra militante.

 

In verità fin dall’unificazione insieme a questure e banche anche insediamenti militari sono presenti nelle città italiane, dove i cartelli indicanti “Zona militare. Limite invalicabile” sono accettati, fin qui senza che comitati civici abbiano invocato le porte aperte delle caserme e la gestione collettiva degli armamenti (forse non ci hanno pensato, ma può essere un’idea, per chi piegasse la testa sui libri: del repubblicanesimo fa anche parte la popolazione in armi). 

 

Nell’Italia di oggi le forze armate non sono molto popolari. In ogni caso, la militarizzazione è solo un simbolo, nient’altro che un simbolo della forzatura che chiede alle comunità locali di riconoscersi nei destini e negli interessi nazionali quando non si hanno altre soluzioni.

 

A sentir propri gli interessi nazionali, una comunità può essere condotta da un’opera pedagogica che da un lato stimoli un patriottismo costituzionale, dall’altro sia accompagnata dall’elargizione di concreti benefici. Una sana mistura dell’uno e dell’altra è l’unico cemento che può tenere insieme una libera comunità locale e renderla fedele allo Stato e alla legge. Non diversamente, per capire che conviene a tutti che tutti paghino le tasse occorrono a un tempo cultura ed evidenze pratiche, solo allora acquistano senso le fasce tricolori indossate dai sindaci elettivi, simbolo dell’incontro tra Stato e comunità.  

 

Ma di questo incontro oggi mancano gli interlocutori. Sono esemplari e desolanti i messaggi che si sono scambiate le parti. Da un lato, il governo ha assicurato che lo stazionamento in porto della nave rigassificatrice sarebbe stato provvisorio, da uno a tre anni, rispetto ai 25 inizialmente chiesti dalla Snam. Imbarazzante. Imbarazzante innanzi tutto perché le promesse governative non hanno alcun valore. Lo dicono la natura transeunte dei governi, la durata delle legislature, le rigidità burocratiche. Ma lo dice, tra le tante, proprio l’esperienza di Piombino. A differenza di altri centri siderurgici, come quello di Terni, ad esempio, sulla cui storia è stato tanto scritto, la storia di Piombino è meno studiata, e meno presente all’opinione pubblica.

 

Chissà quanti hanno presente che La bella vita di Virzì è una storia coniugale, ma racconta anche la crisi dell’acciaieria. Fondato già nel 1865, quello di Piombino è stato tra i maggiori poli siderurgici italiani, arrivato ad avere quasi ottomila dipendenti. In età repubblicana, la sua è una lunga storia di deindustrializzazione che ha conosciuto le più varie peripezie, passando di mano in mano – mani russe e algerine comprese, pensa un po’, e infine indiane – fino all’aprile del 2014, quando è stata effettuata l’ultima colata di acciaio ed è stato stipulato un accordo per la riconversione dell’area. Ma fin dal 1998, insieme a Gela e a Taranto, Piombino è rientrato nei Sin (Siti di Interesse Nazionale), vale a dire territori dove lo Stato aveva riconosciuto la contaminazione ambientale e indicato la priorità delle bonifiche. Che non sono mai venute. È questa la storia della deindustrializzazione italiana.

 

Ancor più imbarazzante è allora la proposta del governo perché tradisce la mancanza di convinzione e strategia, di fiducia e di visione del futuro che caratterizza le politiche industriali italiane nell’epoca del declino. Non sanno che senza convinzione e prove di forza non ci sarebbe stata la modernità italiana. Dopo la Seconda guerra, quando fu trovato il gas nella valle padana, Enrico Mattei, visionario ex partigiano cattolico, tentò la sfida alle sette sorelle. Per un certo periodo il Cane a sei zampe fece sognare in grande. In quegli anni gloriosi, con Adriano Olivetti altri sognarono l’elettronica. E il nucleare. In seguito, l’Italia ha costruito il suo miracolo economico abbandonando la ricerca avanzata (informatica, chimica, nucleare), esaltando l’industria di trasformazione a basso contenuto tecnologico, e specializzandosi fino a un certo momento nei beni di consumo durevoli, come le automobili, o gli elettrodomestici, infine abbandonando anche quelli per coltivare alcune poche produzioni altamente specializzate e guadagnando forti posizioni nell’alta moda, nella cucina e nel vino, nel design, nell’abbigliamento, nel cinema.

 

In questo panorama, la rigassificazione è solo un misero ripiego, non fa parte di un qualche progetto creduto, non si colloca in un qualche orizzonte di futuro. Nei programmi elettorali di questi giorni non compare nulla di tutto ciò, e si è arrivati al punto che per i sostenitori dell’“agenda Draghi”, i rigassificatori appaiono come un punto politico qualificante, come se fossero in sé un obiettivo strategico da contrapporre a forze politiche rivali, le quali forse sono “contro i rigassificatori” (e speriamo che anche se non l’hanno specificato ritengano utile avere banche e scuole, strade e ferrovie…). 
Non meno imbarazzante, nel dialogo elettorale, la posizione di chi è “contro”. In realtà l’ottusa vuotezza della parola d’ordine “non a Piombino, da un’altra parte”, nella più ingenua visione Nimby ha anch’essa una sua storica densità.

 

Negli anni nei quali si spengevano, con gli altoforni, le visioni del futuro, duellavano molto astratte visioni del mondo. Sicuro rifugio per chi non affronta il presente, le ideologie. Protagonista la “globalizzazione”, che consente di distogliere lo sguardo da qui e ora e volgerlo alto e lontano. C’è chi della globalizzazione elogia le virtù, segnalando che ha sottratto alla povertà estrema centinaia di milioni di persone nel mondo (ma senza poi studiare i nessi con gli arrivi dei disperati sulle nostre coste, un altro tema affidato alla tenzone tra blocchi navali e assistenza umanitaria).

 

Altri della globalizzazione denunciano gli effetti perversi, l’aumento delle diseguaglianze in patria, i danni all’ambiente, la decostruzione delle classi operaie e le nuove schiavitù del lavoro, e dunque agitano i grandi temi e conducono le grandi, meritorie battaglie, save the planet, evviva Greta Thunberg. Ciascuno con i propri eidola. Il confronto tra global e local è continuo, ineludibile, può generare scontri radicali come quelli che hanno cominciato a connotare il nostro secolo, da Porto Alegre e Genova, e che da allora inseguono ogni sorta di manufatto ultralocale, emblematicamente ogni manufatto che impegna ingenti risorse per costituire i nessi e i collegamenti che fluidificano la globalizzazione, siano una ferrovia, un traforo, una diga, un oleodotto, un ponte.

 

In ciascuno si vede un attacco agli equilibri antropici che ovviamente spaventa ancor più se ha potenziali valenze inquinanti, tipicamente gli inceneritori, per non parlare dei rettori atomici. Chi tentasse di soppesare costi e benefici è già un avversario, come è sempre accaduto ai riformatori di fronte ai rivoluzionari, ai pragmatici di fronte agli ideologi. Pensiamo soltanto a come i focosi comitati hanno difeso ulivi centenari dalla provvisoria deportazione in occasione dell’approdo in Puglia del Gasdotto Transadriatico (Tap) che oggi ci porta senza danno un po’ di gas.

 

Oppure a come cinque anni di amministrazione ecologista ha lasciato Roma preda di cinghiali, ratti e gabbiani perché ci sono altri sistemi, “più avanzati” dei termovalorizzatori per risolvere il problema. Per come si è espresso, più che in loco nella politica nazionale, il no al rigassificatore è un riflesso automatico di questa ideologia antimodernista e anticentralistica. Che nemmeno si è fermata a valutare sul serio se per ipotesi il cloro scaricato in mare dalla nave rigassificatrice – che sarebbe di 50 chili al giorno – nuocerebbe agli allevamenti ittici, per non dire di quel tubo di otto chilometri che dalla nave arriverà alla rete del gas, e che, proclama il comitato, potrebbe andare “a discapito del paesaggio”. 

 

Così l’Italia di oggi, deposti i sogni e le grandi visioni, si regge su una strana, instabile convergenza di dinamiche diverse. Da un lato, l’ingegnosità della piccola impresa della “terza Italia”, l’Italia dei medi insediamenti, della fabbrica diffusa, che batte la concorrenza, esporta, e regge il Pil; dall’altro le culture antiscientiste e “naturiste” delle tradizioni sessantottina ed eversiva (quella appunto che da Porto Alegre arriva a Greta Thunberg passando per il no everything), una cultura che si è fatta meno eversiva perché ha conquistato l’egemonia, perché ha saputo fermare ogni ricerca di nuovi giacimenti naturali, bandire l’ipotesi del nucleare e coltivare un blando culto delle fonti naturali, come i pannelli solari o l’eolico (purché non deturpino i panorami del bel paese).

 

Per ora, gli italiani vivono di debiti, del risparmio dei nonni e di quello posto sulle spalle dei nipoti. E le sue culture politiche parlano a vuoto, tanto più alzando la voce quanto meno sanno di cosa parlare. I movimenti “sovranisti”, sostenuti dagli opportuni legami politico-culturali con la Russia fornitrice di gas e petrolio, di tante sognate sovranità si curano meno che della sovranità energetica (mentre la vicina Francia, la grand nation, sovrana più che sovranista, costruisce centrali nucleari). 

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