Il dilemma del petrolio russo, tra sanzioni e recessione

Luciano Capone

Da 65 a 380 dollari al barile: le previsioni sul prezzo del greggio riflettono incertezza e rischi delle sanzioni alla Russia. L'occidente ha due interessi contrapposti: ridurre le entrate di Putin e non far sparire il greggio russo dal mercato. Per questo più che su embargo e price cap bisognerebbe puntare su un dazio.

Diceva il fisico Niels Bohr che è molto difficile fare previsioni, soprattutto sul futuro. Ed è particolarmente vero quando si tratta di prevedere il prezzo di un prodotto o di un titolo. Ma nel caso del petrolio l’incertezza è veramente enorme: le stime per la fine di quest’anno vanno da un calo a 65 dollari fino a un’impennata a quota 380 dollari al barile. Si tratta in entrambi i casi di scenari possibili e negativi, per quanto uno appaia più auspicabile dell’altro.

 

La scorsa settimana, JpMorgan ha scioccato i mercati con un rapporto che ha stimato un aumento stratosferico del prezzo del greggio fino a 380 dollari al barile, nel caso in cui la Russia dovesse reagire con un blocco delle esportazioni all’introduzione di un price cap al petrolio russo di cui si è discusso al G7. Il Cremlino è in una posizione fiscale solida e potrebbe decidere di fermare l’export per un po’. Sebbene la Russia sia uno dei principali produttori mondiali di greggio e prodotti petroliferi, la sua quota di export rappresenta solo l’8% della produzione globale. Ma in un mercato molto teso, se anche una piccola parte di questa quota sparisse le ripercussioni sarebbero notevoli. Secondo Jp Morgan, un taglio dell’export di 3 milioni di barili al giorno farebbe salire il prezzo del greggio a 190 dollari, mentre nello scenario peggiore di un taglio di 5 milioni di barili il prezzo schizzerebbe a 380 dollari. Sarebbe un costo insostenibile per i paesi occidentali e devastante per il resto del mondo.

 

È uno dei rischi da considerare in relazione all’introduzione di nuove sanzioni come il price cap: Putin potrebbe decidere di non sottostare all’imposizione di un tetto al prezzo togliendo il petrolio russo dal mercato. Infliggerebbe così un danno enorme all’occidente. Le condizioni del mercato sono dalla sua parte e le riserve accumulate in questi mesi gli danno margini di autonomia. In una certa misura è ciò che sta già facendo con il taglio delle forniture del gas.

 

Lo scenario di una discesa a 65 dollari al barile si basa invece su una previsione di Citigroup. E non è così positivo come appare. Nel senso che il calo del prezzo del petrolio avverrebbe solo per una forte riduzione della domanda, che è il prodotto di una recessione. In tal caso le quotazioni del greggio scenderebbero a 65 dollari al barile entro la fine di quest’anno e a 45 dollari entro la fine del 2023. Un segnale in questa direzione c’è stato nei giorni scorsi: il prezzo del greggio è improvvisamente sceso di quasi il 10%, attorno ai 100 dollari al barile (poco sotto il Wti e poco sopra il Brent), un livello che non si registrava da maggio. Il calo è dovuto proprio alle previsioni di un rallentamento della crescita, o addirittura di una recessione.

 

Questo intreccio tra l’economia globale e l’export energetico russo mostra quanto sia delicato il tema delle sanzioni: da un lato l’occidente ha l’obiettivo di bloccare il flusso di dollari che vanno a Mosca, dall’altro l’interesse che il petrolio russo non sparisca completamente dal mercato globale altrimenti i prezzi esploderebbero. Muoversi tra Scilla e Cariddi non è semplice. L’occidente, però, sta adottando una strategia che non appare molto coerente: da un lato teme che l’offerta russa sparisca dal mercato; dall’altro impone sanzioni nette come il divieto di assicurare navi che trasportano petrolio russo o il price cap che possono portare proprio a un blocco dell’export russo.

 

Ci sarebbe una strada intermedia, più flessibile e graduale, proposta da diversi economisti internazionali, che è quella dei dazi: non riducono il flusso di gas e petrolio russo sul mercato, ma il flusso di soldi che scorre verso le casse di Putin. Non si comprende bene perché non sia stata presa seriamente in considerazione.

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  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali