l'intervista

La guerra dell'energia. Le sfide, i tabù e i vizi ideologici dell'Italia. Parla il ministro Cingolani

Claudio Cerasa

Lo stato di preallarme sul gas, la necessaria svolta europea, le conseguenze del putinismo, le nostre imprudenze del passato: poche ore prima che le truppe di Putin assediassero Kyiv, il ministro della Transizione energetica ci ha spiegato le strategie italiane in tema di energia, i rischi e le prospettive

Il presidente del Consiglio, Mario Draghi, ha detto che le sanzioni approvate dall’Italia “ci impongono di considerare con grande attenzione l’impatto sulla nostra economia”. Ha ricordato che “il 45 per cento del gas che l’Italia importa proviene dalla Russia, in aumento dal 27 per cento di dieci anni fa”. Ha invitato il paese a “procedere spedito sul fronte della diversificazione, per superare quanto prima la nostra vulnerabilità ed evitare il rischio di crisi future”. Ha annunciato “di voler incrementare il gas naturale liquefatto importato da altre rotte, come gli Stati Uniti”, di voler “lavorare per incrementare i flussi da gasdotti non a pieno carico – come il Tap dall’Azerbaijan, il TransMed dall’Algeria e dalla Tunisia, il GreenStream dalla Libia” – e di essere pronto a riaprire “le centrali a carbone, per colmare eventuali mancanze nell’immediato”. “Per il futuro – ha detto Draghi – la crisi ci obbliga a prestare maggiore attenzione ai rischi geopolitici che pesano sulla nostra politica energetica, e a ridurre la vulnerabilità delle nostre forniture: è stato imprudente non aver differenziato maggiormente le nostre fonti di energia”.

 

Ecco. Ma cosa significa essere stati imprudenti? Quali sono i tabù energetici che l’Italia deve affrontare? E cosa vuol dire nel concreto governare una stagione all’interno della quale l’Italia, come annunciato dal governo sabato scorso, si trova sul gas in uno stato di “preallarme”? Poche ore prima che la guerra di Vladimir Putin in Ucraina si intensificasse arrivando alle porte di Kyiv, abbiamo provato ad affrontare questi temi con Roberto Cingolani, ministro della Transizione ecologica, e lo abbiamo fatto in un lungo, appassionato e speriamo esaustivo colloquio all’interno del quale abbiamo mescolato tutto. Tabù, vizi ideologici, sfide future, guai geopolitici, battaglie tra aziende e rotture possibili con il passato. 

 

Ministro, dalla crisi geopolitica che si è andata a delineare negli ultimi giorni, quali sono i tabù più forti di fronte ai quali si è trovata l’Italia? “È un peccato aver dovuto aspettare l’emergenza – dice Roberto Cingolani – per parlare dei problemi, soprattutto se si tratta di un’emergenza umanitaria: qui stiamo parlando di una guerra. Ma il primo pensiero che ci viene in mente riguarda quello che ci succede in casa, con l’energia. Fatta questa premessa, diciamo che noi paghiamo scelte sbagliate durate decenni e che si riassumono in un energy mix che nei fatti è sostanzialmente monocromatico. Abbiamo un solo vettore di energia, una sola sorgente: il gas. Poi sì, abbiamo fatto crescere le fonti rinnovabili, c’è stato un impulso negli anni Duemila e ora stiamo accelerando tantissimo la decarbonizzazione, però nei fatti siamo dipendenti dal gas. E oltre all’energy mix con troppa poca scelta c’è un errore nell’errore, cioè aver diminuito la produzione di gas nazionale. E senza avere ottenuto un impatto ambientale positivo, perché il gas comunque l’abbiamo comprato dall’estero e il netto del danno ambientale è rimasto costante. Almeno la produzione nazionale avrebbe ridotto le spese di trasporto e garantito maggiore indipendenza dalle fluttuazioni del mercato. Vede, sta venendo a galla la nostra eccessiva dipendenza da paesi stranieri, una dipendenza che, sommata alla singolarità del nostro energy mix, ci rende particolarmente deboli. Tant’è vero che mentre si parla di sanzioni alla Russia, noi abbiamo avuto il problema di aderirvi sapendo che potremmo avere un contraccolpo più duro rispetto ad altri paesi. Se per caso ci tagliassero il gas, e il 47 per cento lo importiamo dalla Russia, saremmo in grande difficoltà. Certo, abbiamo compensato differenziando i fornitori, però resta sempre un piatto monocromatico. Credo che su questi errori vada fatta una riflessione. C’è stata mancanza di lungimiranza. Non abbiamo capito in tempi non sospetti, non emergenziali, quanto sia importante per un paese avanzato, uno dei primi dieci al mondo, avere un minimo di autonomia energetica. Dal 1973 a oggi abbiamo avuto crisi petrolifere e crisi del gas, ma non abbiamo imparato la lezione”. 


Ci aiuti a fare una fotografia di quella che è la dipendenza energetica dell’Italia rispetto al rispetto al mercato internazionale. “Grosso modo abbiamo un terzo che è energia elettrica, e due terzi che sono molecole che bruciano, quindi olio e gas, quelle che producono CO2. E una fetta importante dell’energia elettrica comunque è prodotta bruciando, se non carbone – perché siamo stati bravi – bruciando gas. Andando a vedere i numeri, il 38 per cento della nostra elettricità è da rinnovabili. Siccome l’elettricità è circa un terzo, allora il 38 per cento di un terzo è circa l’11 per cento. Se l’11 per cento dell’energia che produciamo è rinnovabile, tutto il resto dell’energia, elettrica e non elettrica, è gas o carbone o petrolio, tutto importato. Per esempio nel caso del gas, 72-73 miliardi di metri cubi è il nostro consumo annuale, e di questi ne produciamo tre e mezzo. Nel 2000 producevamo 20 miliardi di metri cubi. La curva della produzione nazionale è andata da circa 20 miliardi nel 2000 a circa tre e mezzo oggi. Ma nello stesso tempo non è che abbiamo diminuito il consumo di gas. Abbiamo semplicemente comprato di più all’estero. Quindi alla fine l’impatto ambientale non è variato. Però, considerato che il 96 per cento del nostro gas è importato, che il petrolio più o meno lo importiamo tutto, e che compriamo energia elettrica dal nucleare della Francia, è evidente che oltre l’11 per cento che ricaviamo dalle nostre rinnovabili, su quasi tutto il resto dipendiamo da sorgenti esterne”. 

 

Siamo contro la produzione autonoma di gas ma quando ne abbiamo bisogno lo compriamo da altri. Siamo contro il nucleare ma quando ci serve energia la compriamo anche da paesi come la Francia, che il sistema energetico lo foraggia con il nucleare. Siamo contro i termovalorizzatori ma quando non sappiamo dove mettere l’immondizia mandiamo la nostra spazzatura nelle città che i termovalorizzatori li usano.  “È così. Da una parte c’è la realtà dell’ottava-nona potenza economica mondiale e la seconda manifattura europea: una realtà energivora, come la nostra. E d’altra parte ci sono state delle scelte che in questi anni non hanno tutelato gli interessi nazionali. Quello che mi fa un po’ impressione è che non abbiamo nemmeno tutelato l’ambiente, perché poi alla fine il consumo energetico grosso modo è sempre rimasto lo stesso. Serve una riflessione pacata, non un tifo calcistico tra chi è in favore del lavoro e chi in favore dell’energia verde.  E’ chiaro che non ci sarà un ambiente se non ci sarà lavoro, e che non ci sarà lavoro se non ci sarà l’ambiente”.

 

Che cosa è necessario fare, ministro, in futuro, quando la guerra finirà, per evitare che la transizione energetica possa trasformarsi non in un’opportunità ma in una minaccia per il nostro benessere? “Il principio di neutralità tecnologica è un principio fondamentale. È quello che ha messo in atto l’Europa con la tassonomia green. Si è posta la domanda: questa tecnologia emette anidride carbonica, sì o no? Bisogna vedere quali sono le priorità energetiche e le proiezioni ambientali, e fare un compromesso. La transizione dura nella fase iniziale almeno 10 anni, e poi al 2050 sono 30. Perché la transizione non si fa in un anno? Perché non è digitale. Il fatto di avere la prima milestone a 10 anni, e il 2030 con la decarbonizzazione al 55 per cento, dimostra che ci si è dovuti dare un tempo sufficiente per fare un’accelerazione alla decarbonizzazione che non ha precedenti ed è irrevocabile e improcrastinabile, ma nello stesso tempo serve darsi il tempo per cambiare il sistema. E non ci si può mettere di fronte a un dilemma: morire di fame o morire di clima. Per rispondere più direttamente alla domanda, data la cogente necessità di decarbonizzazione, non possiamo che accelerare mostruosamente le rinnovabili. La regola è la stessa in tutto il mondo. Anche la Cina sta passando da carbone a gas. Dopodiché non è che il gas sia perfetto. Però è meglio del carbone. Noi un primo taglio l’abbiamo già fatto. Allora acceleriamo enormemente le rinnovabili. Però se vogliamo fare realmente l’idrogeno verde, la mobilità elettrica massiva, convertire in elettrificati i settori manifatturieri hard to abate, dobbiamo avere abbastanza energia elettrica verde per poter alimentare questi settori. Se continuiamo a produrre energia con il gas, tutto ciò non serve. Questa conversione richiede infrastrutture. La transizione non è solo installare i pannelli o le pale. E’ gestire una rete smart e cambiare l’infrastruttura. Per questo ci vogliono anni ed è per questo che non bisogna illudere nessuno dicendo che le soluzioni sono pronte”.

 

Qual è oggi lo scatto che può fare l’Europa nella gestione delle politiche energetiche? “La parola d’ordine è quella usata da Mario Draghi in Parlamento la scorsa settimana: spingere l’Unione Europea nella direzione di meccanismi di stoccaggio comune, che aiutino tutti i Paesi a fronteggiare momenti di riduzione temporanea delle forniture. L’Italia si augura che questa crisi possa accelerare finalmente una risposta positiva sul tema. Questo è il momento in cui nasce il mercato energetico europeo. Significa collaborazione europea sui gassificatori. Significa stoccaggio di gas a  livello europeo. Dobbiamo comportarci da continente almeno per quanto riguarda il gas all’interno della transizione. Dobbiamo rimodulare le regole del mercato. Se produco un’unità di energia idroelettrica che produce zero, perché te la devo far pagare come se fosse prodotta con il gas? Il gas era una buona unità di misura prima, ora non lo è più”. 

 

Non vede, in prospettiva futura, il rischio che l’aumento dei prezzi possa contribuire a trasformare la transizione ecologica in un qualcosa di eccessivamente doloroso per i cittadini? “Io sono un profondo e convinto europeista. Una garanzia del fatto che l’Europa, nella fase post emergenziale, saprà essere ragionevole nell’approccio integrato sta nel fatto che ci sono 27 stati con situazioni di partenza molto diverse. Tutto il mondo è diverso, però le differenze che ci sono nel mondo sono talmente grandi che è difficile trovare una sintesi. Invece in Europa questo è possibile, con un po’ di elasticità si riescono a trovare soluzioni che più o meno accontentano tutti. Io credo che l’Europa abbia fatto bene a partire con l’asticella molto alta, perché altrimenti non ci sarebbe stata quella tensione e quella forza di persuasione. Il Next Generation Eu è uno spazio grande, e sono convinto che l’Europa sappia essere molto pragmatica.  Il punto è saper valutare cosa c’è da cambiare in corso d’opera. Faccio una domanda retorica: ma davvero qualcuno crede che con questo programma che abbiamo costruito nell’ultimo anno e mezzo, si possa essere a posto per i prossimi trent’anni? Solo un ottimista inguaribile può pensare che abbiamo azzeccato tutto. Questo è un viaggio lungo, abbiamo questo propulsore del Next Generation Eu che speriamo si metta nella giusta traiettoria, ma le correzioni di rotta piccole e medio-grandi che dovranno essere fatte nel corso di trent’anni saranno moltissime”.

 

E rispetto a quello che è stato l’approccio iniziale c’è già qualcosa che si può correggere? “Parlarne ora sembra essere fuori tempo ma qualcosa sul futuro si può già dire. Adesso abbiamo tutta una serie di direttive, per esempio la tassonomia energetica è un atto delegato di una direttiva molto ampia sull’energia, ma anche la “Fit for 55” in cui dovremo stabilire un percorso comune tra i 27 stati, un energy mix molto diverso o una mobilità nazionale molto diversa, e stabilire delle regole comuni per arrivare al 55 per cento di decarbonizzazione. Cosa fa l’Europa? Cerca di trovare il massimo comune denominatore. Quindi nella discussione di queste direttive automaticamente verranno fuori dei correttivi che riprendano anche le giuste istanze sollevate dagli stati. In questo momento la Germania ha una pulsione formidabile nel phase out del carbone, loro sono anche un po’ in ritardo. Nello stesso tempo vuole fare il phase out del nucleare, però aveva messo il North Stream 2 per il gas, e in più sta puntando molto sulle rinnovabili. Di fatto è un momento di transizione per la prima potenza manifatturiera europea. Ma mentre si faceva un piano di lungo termine, per un certo periodo hanno addirittura aumentato il carbone, perché nel frattempo dovevano affrontare situazioni contingenti. Credo che questo tocchi tutti i paesi, dobbiamo essere realisti e ricordarci che in questo percorso lungo quello che conta è a 10 anni il 55 per cento di decarbonizzazione”.

 

Una questione tecnica: ma se dovessero interrompersi i flussi di gas dalla Russia all’Europa, quanta autonomia abbiamo per poter non subire questa decisione in modo traumatico? “È evidente che tutto ciò purtroppo è time dependent. È diverso se la crisi capita quando hai gli stoccaggi pieni. In questo momento, verso la fine dell’inverno, non li abbiamo pieni. Siamo partiti con gli stoccaggi pieni all’85 per cento quest’anno, un po’ meno degli anni passati ma sempre meglio del resto d’Europa, e ora stiamo consumando. Credo che abbiamo i livelli di riempimento che un anno fa avevamo a marzo. Il problema è mettere al sicuro gli stoccaggi e quindi riempire i nostri serbatoi. Dietro all’ultimo decreto c’è proprio l’idea di riuscire ogni anno a partire con almeno il 90 per cento di riempimento, quindi prevediamo delle misure che facilitino gli stoccaggi. Però è chiaro che non è che puoi fare due anni con lo stoccaggio, si dura al massimo qualche mese”.

 

Un paese con la testa sulle spalle  dovrebbe interrogarsi su come essere più indipendente dal punto di vista energetico. Se all’Italia serve più gas, non si capisce perché non debba agire sugli unici canali che oggi sembrano possibili: trivellare di più, laddove si può in Italia, e diversificare l’importazione del gas. “Algeria e Azerbaijan sono le rotte sud. Qui può aumentare la quota, il trasporto nel cosiddetto Tap, e credo si possa anche raddoppiare. Ma sono infrastrutture che non si fanno in un mese. E comunque il vantaggio di non avere un solo fornitore è proprio questo. E’ chiaro che redistribuire in maniera più equa le forniture è più prudente. Detto questo, si possono aumentare le importazioni di energia elettrica da fuori. Si deve accelerare l’autoproduzione con le rinnovabili, in questo momento l’unica cosa che possiamo fare molto rapidamente è questa. Però aggiungerei un punto: qui non è solo una questione di tensioni geopolitiche, c’è anche una questione di mercato, perché noi paghiamo l’energia elettrica normalizzata al prezzo termico del gas – oggi il gas è una merce rara. Il quadro è questo: io produco un megawatt di energia idroelettrica che mi costa sostanzialmente zero perché gli impianti sono ammortati e sull’acqua c’è una concessione, e poi però te la quoto al prezzo di un megawatt in rapporto col gas – qui c’è anche un problema di mercato globale. In bolletta stiamo pagando una follia del mercato, oltre che tutti gli altri problemi. I costi della bolletta in larga misura dipendono anche da una convenzione di mercato che non ha più senso. Lavoriamo anche su questo”.


Ci fa una fotografia della nostra bolletta? “In generale se il complesso delle bollette è di 50 miliardi – ora è di più ma prima della crisi erano 50 miliardi – 10 miliardi sono l’Iva, 11-12 sono i famosi oneri che sono prevalentemente gli incentivi che noi paghiamo perché ogni cosa che passa viene caricata in bolletta, e i restanti 27-28 miliardi sono il prezzo del vero e proprio consumo. Ora, questo prezzo di consumo com’è calcolato? L’unità di energia la si paga secondo un mercato di riferimento. Al momento si sceglie il prezzo di un’unità di energia prodotta bruciando gas. Un tempo questa cosa era ragionevole perché il gas era molto economico. Le rinnovabili costavano e quindi per incentivarle si diceva “questa energia va venduta al prezzo dell’energia più economica che è quella del gas”. Adesso per una serie di motivi – la crisi climatica, la decarbonizzazione, i problemi geopolitici, il fatto che la Cina sta decarbonizzando e si sta prendendo quasi tutto il gas che c’è in giro, la guerra – il gas è diventato in realtà il meno conveniente. Allora la mia domanda è, ma se produciamo l’energia con il sole, il vento e l’acqua, possiamo pagarla a un prezzo equo e non al prezzo fittizio del gas? Perché qui si stanno arricchendo sicuramente i grandi produttori di gas, i russi appunto – noi non lo produciamo – e si sta arricchendo chi produce energia a pochissimo e la rivende a un prezzo di mercato che è folle. Per esempio attraverso i trader. Questa è una questione che dobbiamo porci, perché la paghiamo noi, la pagano le imprese. E’ un problema internazionale, ci sono condizioni di mercato, questa è la Borsa dell’energia, è molto più complesso di quanto sembri. Perché per esempio non è che si può dire ‘allora vediamo, quanto costa un megawatt l’ora di fotovoltaico? Uno di idroelettrico?’. Perché non sai se l’elettricità che si sta usando in questo momento per fare la videoconferenza viene da un l’idroelettrico, o da un solare, o è un mix, quindi non potendo sapere devi fare un prezzo medio statistico. E sono statistiche di mercato, serve una Borsa che in qualche modo giochi più in favore delle imprese e dei cittadini. Io ho portato in Europa questo problema, così come l’idea di stoccaggi comuni: grandi quantità di gas a costo minore. E soprattutto ho proposto la revisione del calcolo dei prezzi. Ma non basta nemmeno l’Europa per risolvere questi problemi”.

 

Sul fronte energetico, quali sono i grandi tabù ideologici che ancora tengono intrappolata l’Italia? E perché nel 2000 producevamo circa 20 miliardi di metri cubi all’anno di gas e adesso ne facciamo quattro?  “C’è stato un disinvestimento. Onestamente le ragioni le ho lette come tutti sui giornali in passato, da cittadino. No alle trivelle, no questo, no quello, e in parte non è che in assoluto sia sbagliato: noi sappiamo che dobbiamo fare il phase out del gas, sia chiaro. Perché il gas per ogni unità di energia che produce, produce anche 120 grammi di CO2. Il carbone ne produce più di mille, il fotovoltaico 30. Quindi prima o poi dovremo eliminare questa CO2. Il punto come al solito è che finché non hai pronta un’altra tecnologia migliore, non puoi spegnere l’unica che hai. Però è stato fatto questo abbattimento della produzione del gas. Ma non abbiamo ottenuto un grande risultato ambientale importandolo: abbiamo pagato il trasporto, l’Iva l’abbiamo lasciata agli altri, abbiamo ridotto la manodopera da noi e adesso ci troviamo in imbarazzo. Dobbiamo sicuramente ridurre il gas nel periodo della transizione, questo è fuori di dubbio, perché il gas è il secondo produttore come vettore energetico di CO2. Ma si può fare non appena abbiamo delle solide alternative che possono essere subito sostitutive. Queste alternative le stiamo costruendo, una sicuramente sono le rinnovabili, potrebbe essere l’idrogeno, potrebbero essere altre. Quello che rimane sempre molto controverso è il problema del nucleare. Non bisogna avere paura di discuterne, per lo meno per me non è un fatto ideologico. Ci sono due referendum che stabiliscono molto chiaramente quello che si può fare: il nucleare no. Benissimo. Dobbiamo accelerare le rinnovabili – e sto facendo di tutto per farlo. Ma qui troviamo il primo blocco ideologico. Tutti le vogliono, però non nel loro giardino. Secondo blocco ideologico: prima o poi le priorità vanno stabilite, in questo momento se dobbiamo fare un’azione massiccia ci vuole un po’ più di flessibilità. Qual è la priorità importante, quella climatica? Quella energetica? Quella paesaggistica? Bisogna prendere una decisione. Ideologicamente non bisogna dire che il gas è brutto: il gas è meglio del carbone e finché non abbiamo energia sostitutiva, facciamo il décalage ma utilizziamolo in maniera intelligente. Poi: la diminuzione dei consumi, l’efficientamento. Se consumiamo di meno bruciamo di meno, produciamo meno CO2. Però attenzione, che non si scopra all’improvviso che grazie all’efficientamento risparmiamo meno del 50 per cento del totale. Perché nessuno accende il termosifone tenendo la finestra aperta. Bisogna essere realistici sulla stima di quanto si può risparmiare. E infine l’energy mix. 

 

Che cosa si può prevedere, guardando oltre il medio-breve termine? “Per il dopodomani c’è il problema di avere qualcos’altro. Se non sarà il gas – perché il gas produce comunque CO2 – ci vorrà qualche altra sorgente di continuità probabilmente. Qualcuno dice gli accumulatori, queste grandi batterie. Io non sono certo che questa possa essere la soluzione, perché purtroppo la continuità non è solo sulle 4-8 ore, può anche essere estate-inverno, è stagionale, c’è un problema un po’ più complesso. Secondo me una sorgente programmabile potrebbe essere utile”. 

E il nucleare? “Non è il momento di parlare di questo tema. Siamo in emergenza. Ma per il domani bisogna guardare al futuro: in questo momento non installerei una centrale nucleare di terza generazione come quelle che ci sono già. Sarebbe tardi, troppo costosa, eccetera. Però credo che sia giusto continuare a investire con molto interesse su due tecnologie. Una è quella che probabilmente sarà la tecnologia del futuro, che è la fusione. La stella fatta in casa, per capirci. Negli ultimi mesi sono usciti un sacco di risultati – Cina, Stati Uniti, Europa – e sono molto incoraggianti, c’è stata un’accelerazione perché il mondo della scienza ha capito che la partita adesso è quella. Poi però siccome dobbiamo essere realisti, la stella di mezzo metro di diametro ottenuta in confinamento magnetico eccetera, non la si vede in commercio nel 2050. Lo sarà forse per fine secolo, un po’ prima, e cambierà l’umanità. Lì ci dobbiamo arrivare però, e in maniera sostenibile. Allora il punto è investire su studio, ricerca, sviluppo e tecnologia dei reattori di quarta generazione”.

 

Ci spieghi come può funzionare questa tecnologia. “Ne esistono talmente tante versioni che dare una spiegazione univoca non è facile. Alcuni elementi di riflessione: intanto questi esistono da tempo e sono utilizzati delle navi, dai sommergibili, dai rompighiaccio. Questo dà l’idea di un reattore che viene costruito in un posto e poi installato su una nave, su una piattaforma. E’ un oggetto modulare, lo si costruisce in fabbrica, lo si porta dove serve. E’ più “amichevole” come tecnologia. Secondo: sono macchine a circolo chiuso che durano una trentina d’anni, poi si smantellano. Non utilizzano l’uranio arricchito, quello diciamo pericoloso che viene raffreddato con l’acqua pesante. Utilizzano delle miscele di sali metallici che fondono a 1.600 °C con altre miscele che contengono gli isotopi radioattivi, ma non le barre convenzionali. Se qualcosa va storto si spengono, si auto-estinguono, non come la centrale per cui se qualcosa va storto, il nocciolo si fonde. Producono pochissimo scarto rispetto alle centrali nucleari, peraltro in alcuni casi è uno scarto che decade in 200 anni, non in migliaia di anni. Producono 300-350 megawatt, quindi molto di meno della centrale nucleare, come con una piccola centrale elettrica. Ora io non credo che questa sia la soluzione, ma diciamo che in un contesto industriale due macchine così ti risolvono dei problemi”.

 

Gli ambientalisti italiani, per fare i conti con la realtà, quali battaglie dovrebbero mettere da parte, un domani, e quali nuove battaglie dovrebbero far proprie? “Continuo a parlare con gli ambientalisti, anche quelli più estremi, spesso abbiamo alcuni punti di divisione, però ci sta, anche perché non sono solo ministro dell’Ambiente, purtroppo lo sono anche per la Transizione ecologica, mi devo occupare di quel famoso compromesso tra sostenibilità ambientale e sostenibilità sociale. Intorno a certe decisioni la misura giusta è difficile da trovare. Credo che gli ambientalisti abbiano un merito infinito, che è stato quello di svegliare la public awareness, la consapevolezza pubblica, perché se non ci fossero stati loro a gridare, sarebbe stato veramente difficile far passare il messaggio dal tavolo dello scienziato al tavolo della società, dell’industria e della politica. Questo gli va riconosciuto: un ruolo storico sociale fondamentale. Dopodiché credo anche che discutendo con molti di loro ci si trovi d’accordo. A livello di movimenti però diventa difficile abbandonare la soluzione semplice. Ma ci sta pure, è una questione di posizionamento e sicuramente la causa è corretta, però tante volte si sovra semplifica la soluzione. ‘Tutte rinnovabili!, e abbiamo risolto’. No, non è vero, perché non abbiamo gli accumulatori. Tutte autovetture elettriche! Beh no, non è tanto vero, perché finché io non produco sufficiente energia verde non posso idrolizzare senza produrre CO2, e via dicendo. Allora entriamo in un discorso particolare: il senso di appartenenza di un grande movimento ambientalista che ha bisogno anche di alcuni argomenti di impatto. Ma andando a parlare con le strutture apicali di queste associazioni, c’è gente molto competente che si rende conto del problema. Il punto è che non può diventare uno scontro fra i sindacati e gli ambientalisti. I sindacati si battono per il lavoro, gli ambientalisti per l’ambiente. Qui tutti difendiamo la stessa cosa. Purtroppo ‘la stessa cosa’ deve essere soprattutto in questa fase un compromesso. Non c’è una soluzione facile, per cui spingi il pulsante e riduci la CO2”. 

Transizione ecologica significa anche transizione da una stagione all’altra della nostra economia: quella dell’immobilismo trasformato nell’unica forma possibile di difesa dell’ambiente. Su questo fronte, quali sono i grandi nemici della transizione italiana? “Il Nimby è un problema culturale: tutti ambientalisti nel giardino degli altri. Questo non va bene. E su questo stiamo facendo una battaglia di persuasione. L’altra cosa che trovo non molto accettabile è il fatto che ci siano delle stratificazioni a livello autorizzativo e politico per cui ciascuno tende a difendere la propria prerogativa autorizzativa come se fosse la priorità essenziale. La qual cosa spesso blocca dei meccanismi nei quali la priorità essenziale non è la singola autorizzazione, ma per esempio l’installazione delle rinnovabili, perché se non decarbonizziamo non ci sarà più niente da autorizzare tra cinquant’anni. Allora quello che cerco di dire in maniera disperata è che è il momento in cui tutti facciamo un piccolo passo indietro perché c’è una priorità sola per tutti: se siamo tutti d’accordo che questa emergenza climatica è l’emergenza con la E maiuscola, tutti dobbiamo fare un passo indietro”.

 

Chi sta alimentando queste forme di immobilismo in Italia?  “Andrebbe cambiata la burocrazia. C’è chi non ha ancora inteso che anche dal punto di vista burocratico bisogna essere più rapidi. Qui il tempo conta, così come la ragionevolezza dell’approccio”.

Possiamo annoverare tra i non amici della transizione ecologica le sovrintendenze più intransigenti, i vincoli ambientali più rigidi, i vincoli paesaggistici più inflessibili? “Non generalizziamo. L’ambiente è in costruzione tanto quanto il paesaggio e va tutelato a tutti i costi. C’è però la percezione di arbitrarietà in certe valutazioni: regole più semplici e più chiare potrebbero aiutare. Ribadisco: se fra un po’ avremo tre gradi di riscaldamento globale, sarà il paesaggio a non esserci più”.

 

Rispetto alla questione della tutela dell’ambiente inserita all’interno della Costituzione non pensa, ministro, che vi sia anche un elemento potenzialmente pericoloso? Affermare il principio che ogni iniziativa economica privata non debba arrecare alcun danno all’ambiente significa spalancare la porta a interpretazioni della legge di carattere squisitamente anti industriale. “I temi da governare sono molti, però secondo me è inutile pensare a interventi top down, come si dice, che cambino, anche perché più ne fai sulle regole e più il sistema reagisce. In questo momento la cosa più importante è una chiara analisi dei problemi che abbiamo davanti. Nulla di più efficace è stato vedere l’aumento delle bollette per far capire agli ideologi del gas che forse è il momento di ricorrere a soluzioni diverse. Nulla di più drammatico di quello che sta succedendo in Russia e Ucraina ci fa capire quanto sia importante avere un mercato dell’energia di un certo tipo, un energy mix, e così via. Come sempre la realtà è il miglior educatore. Dobbiamo discutere queste cose, affrontarle non calcisticamente, sviscerare questi argomenti in modo tale che si crei una consapevolezza. Il vero punto è che a mio parere la consapevolezza non c’è, e se non si capisce quanto è grave la situazione, ci si ostina a fare ragionamenti sulle pale eoliche a diecimila metri dalla costa che si vedono alte un centimetro all’orizzonte. Quel centimetro in momenti di pace ambientale ed energetica può dare fastidio. Ma adesso è niente rispetto al problema e alla soluzione che questa pala può dare”.

 

Fino a quanto si può aumentare la produzione di gas in Italia? Ed è vero che a livello potenziale ci sono nell’est Adriatico e nei vari canali circa 90 miliardi di metri cubi disponibili? “Ci sono 35 miliardi di metri cubi se non vado errato nel nord Adriatico. E poi ci sono gli altri giacimenti che sono già sfruttati. Intanto non ce n’è bisogno in questo momento, ma è bene sapere di averlo. Dopodiché non è che lo apri con il cavatappi, ci vogliono anni per sfruttarlo. Però è una riserva in più, senza dubbio”.

Fino a quanto possiamo realisticamente nel breve termine aumentare la produzione di gas attraverso una trivellazione superiore rispetto a oggi? “Al momento i dati sono abbastanza chiari, possiamo raddoppiarla o poco meno, con il sistema attualmente in funzione e i giacimenti che ci sono già. Quindi stiamo parlando di 5 miliardi di metri cubi su 70. Dopodiché se in uno scenario totalmente ipotetico si dovesse decidere di dare fondo agli altri giacimenti del Nord Adriatico, si tratterebbe di 35 miliardi di metri cubi, ovviamente non li pompi tutti in un colpo, pomperai qualche miliardo all’anno. Comunque stiamo parlando sempre di una frazione percentuale di 70 miliardi, noi comunque dipendiamo dal resto del mondo, non c’è dubbio”. Diversificazione, neutralità, mercato europeo, maggiore indipendenza e minore ideologia. L’aggressione della Russia in Ucraina è un acceleratore sui tabù energetici italiani. La capacità dell’Italia di vincere la sua guerra oggi passa anche da qui.
 

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.