(foto LaPresse)

“Should I stay or should I go”? Ipotesi Goldman-Clash su Draghi

Mariarosaria Marchesano

La banca d'affari americana spiega che se l'elezione del premier al Quirinale rafforzerebbe l'ancoraggio dell'Italia all'Europa, la sua ascesa al Colle scatenerebbe incertezza sul nuovo governo. Rischiando di compromettere l'utilizzo del Recovery Fund

Nel 1982, quando i Clash, la rock band più militante di quegli anni, lanciarono la mitica “Should I Stay or Should I Go”, Mario Draghi aveva 34 anni, abbastanza giovane per apprezzare un successo planetario come la canzone che parla dell’alternarsi di momenti positivi e negativi nella vita e dell’opportunità di portare avanti una relazione problematica. Dovrei restare o dovrei andare? Questo è anche il dilemma del premier italiano e, per spiegarne i possibili effetti sui mercati, la banca d’affari americana Goldman Sachs, di cui proprio Draghi è stato vice presidente, ha scelto “Should I Stay or Should I Go” come titolo di un’analisi la cui conclusione è che meglio sarebbe per l’Italia che le cose a Palazzo Chigi non cambiassero. E questo perché la presenza di Draghi è quella che può meglio garantire l’arrivo di tutti i soldi del Recovery Fund e, di conseguenza, l’impulso fiscale necessario per la crescita economica dei prossimi anni.

Tale convinzione è abbastanza diffusa nella comunità finanziaria internazionale, come dimostra la crescita dello spread negli ultimi quattro mesi (ieri il differenziale Btp-bund è arrivato a superare 140 punti base, 40 punti in più rispetto alla scorsa estate), ma Goldman Sachs si mostra più preoccupata del consenso degli analisti e ne spiega le ragioni pur senza tralasciare i vantaggi della possibilità che l’attuale premier salga al Quirinale.

Anche se l’elezione del premier Draghi alla presidenza della Repubblica rafforzerebbe l’ancoraggio dell’Italia e la sua politica all’interno dell’Europa – riflette Goldman Sachs – la sua elezione scatenerebbe incertezza per quanto riguarda il nuovo governo e la sua efficacia politica”. Il fatto è che le dimissioni di Draghi da premier richiederebbero un nuovo accordo di coalizione, un nuovo primo ministro e un nuovo governo e dati gli interessi divergenti tra i partiti in Parlamento su tutti questi fronti, c’è da preoccuparsi che “questo scenario comporterebbe un ritardo nell’attuazione del Recovery Fund e delle relative riforme”. Restare o andare, dunque, non è una decisione semplice per Goldman secondo cui “le elezioni presidenziali potrebbero avere significative implicazioni di mercato”. Elezioni il cui iter comincerà a partire dal 24 gennaio e probabilmente non vedrà la fine prima del 28 quando sarà eletto il nuovo presidente al quarto scrutinio che richiede una maggioranza semplice. Nell’eventualità, improbabile a dire il vero, che l’ascesa al Colle di Draghi si traduca in elezioni anticipate per la difficoltà di raggiungere un compromesso su un nuovo esecutivo, la continuità politica “sarebbe gravemente compromessa provocando importanti ritardi sull’impegno dell’Italia nel Recovery Fund”.

Il ragionamento che sta alla base di questi timori è che l’Italia ha previsto di beneficiare di consistenti esborsi Ue nel 2022, ma l’effettivo assorbimento e l’impulso fiscale dipenderanno dalla sua capacità di realizzare le riforme e gli investimenti pianificati. La previsione della banca d’affari è che eventuali ritardi nella premiership potrebbero ridurre l’effettivo utilizzo dei fondi europei del 50-70 per cento diminuendo l’impulso fiscale alla crescita del Pil di 0,1 punti percentuali nel 2022 e 0,35 nel 2023 e fino a 0,15 per cento e 0,55 per cento in caso di elezioni anticipate. Ma c’è un’altra ragione, secondo Goldman, che farebbe propendere per il mantenimento dello status quo ed è il fatto che un uso efficace del Recovery Fund “rafforzerebbe anche il ruolo dell’Italia nel dibattito sulla riforma delle regole del fisco europeo”. Il riferimento è all’intervento Draghi-Macron sul Financial Times del 23 dicembre, quando i due leader hanno criticato il Patto di Stabilità e auspicato per gli stati regole di bilancio meno complesse in modo da dare in futuro più spazio agli investimenti. La domanda a questo punto è se e in che misura Draghi, dal Quirinale, potrebbe continuare a svolgere il ruolo di picconatore di queste regole. Un ruolo fondamentale nella prospettiva in cui la Bce comprerà sempre meno titoli dagli stati, con l’Italia che tornerà a essere esposta agli investitori internazionali per collocare il suo debito pubblico.

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