Dieci buone ragioni per vedere nel 2022 Draghi al Quirinale

Claudio Cerasa

I numeri in Parlamento, la convenienza di tutti i partiti, i sette anni di garanzia per il Pnrr possono bastare?  Se no, considerare anche il rischio che, in caso contrario, il paese  si ritrovi contemporaneamente senza Mattarella e senza Draghi 

Ci sono almeno dieci ragioni per cui l’arrivo di Draghi al Quirinale è destinato a risolvere più problemi di quelli che può creare. La prima ragione ha a che fare non con la politica ma con la logica dei numeri e la logica dei numeri è spietata se si prende in considerazione una domanda molto semplice: esiste qualcuno che più di Draghi può affrontare con una certa disinvoltura la giungla dei franchi tiratori? I numeri ci dicono che persino Carlo Azeglio Ciampi, nel 1999, alla prima votazione, quando fu eletto al Quirinale, ebbe circa il 20 per cento di franchi tiratori, in totale furono 180, e se si sceglie di utilizzare quella percentuale per distinguere il netto dal lordo, all’interno della platea dei grandi elettori, si capirà bene perché la candidatura di Berlusconi non esista e perché quella di Draghi sia l’unica davvero naturale.

 

Draghi oggi, esclusi i delegati regionali e il gruppo misto, ha a disposizione 914 voti. Se togliamo il 20 per cento, si arriva a 731. Se togliamo il 25 per cento (229 franchi tiratori), si arriva a 685. Per essere eletti nelle prime tre votazioni servono almeno 671 voti e dunque Draghi anche con il 25 per cento di ribelli avrebbe la possibilità di andare al Quirinale a una delle prime tre votazioni (Berlusconi ha a disposizione 459 voti, gliene mancherebbero 45 per essere eletto a partire dalla quarta votazione, ma se si toglie il 20 per cento a 459 si capirà che i voti che ha a disposizione il Cav. sono circa 367: gliene mancherebbero quindi più di 130).

 

La seconda ragione, più semplice, ha a che fare con la logica della politica: se il problema dei parlamentari è la stabilità della legislatura, è evidente che un voto contro la candidatura di Draghi al Quirinale avrebbe l’effetto di sfiduciare lo stesso Draghi e nel giro di poche ore l’Italia rischierebbe di ritrovarsi contemporaneamente senza Mattarella e senza Draghi.

 

La terza ragione riguarda anche l’inerzia della politica: se Draghi incarna la stabilità dell’Italia, come si è detto, avere un’Italia stabilizzata per sette anni rappresenta una prospettiva infinitamente più suggestiva che averla stabilizzata solo per i prossimi sette mesi. La quarta ragione riguarda la convenienza che troverebbero tutti i partiti nell’avere Draghi al Quirinale, perché avere l’attuale premier come candidato unico per il dopo Mattarella aiuterebbe il centrodestra a dire “finalmente non c’è un uomo del Pd al Quirinale” e aiuterebbe il centrosinistra a dire “abbiamo scongiurato un candidato delle destre al Quirinale”. La questione è di carattere generale ma è anche di carattere particolare, perché un Draghi al Quirinale (ragione numero cinque) converrebbe a Giorgia Meloni, che forse solo con un garante dell’Italia come Draghi al Quirinale potrebbe avere qualche speranza di finire davvero a Palazzo Chigi, converrebbe (ragione numero sei) a Matteo Salvini, che forse solo votando per Draghi al Quirinale avrebbe la possibilità di far entrare la Lega nella stagione della post impresentabilità, converrebbe (ragione numero sette) anche a Enrico Letta, che scommettendo su Draghi al Quirinale avrebbe la possibilità di tenere unito tutto il Pd e di fare uno scatto lontano dalla stagione della sottomissione al grillismo, e in fondo, a guardar bene, converrebbe (ragione numero otto) anche a Silvio Berlusconi, che al netto delle sue legittime ambizioni quirinalizie trasformandosi una volta di più nel king maker della politica dimostrerebbe di essere ancora lui il vero motore del centrodestra italiano.

Accanto a queste ragioni un po’ politiche e un po’ politicistiche ce ne sono almeno altre due che hanno a che fare direttamente con il futuro dell’Italia. E anche qui dovrebbe essere la logica a prevalere. Ci sono dubbi (ragione numero nove) sul fatto che avere per sette anni come guida del paese colui che ha scritto il Pnrr, che avrà una validità di sette anni, rappresenti una garanzia formidabile per la realizzazione delle riforme contenute nel Piano di ripresa e resilienza? E ci sono dubbi sul fatto che avere al Quirinale un presidente della Repubblica con pieni poteri, capace di diventare una sintesi tra Sergio Mattarella e Carlo Azeglio Ciampi, possa offrire all’Italia la possibilità di diventare per i prossimi sette anni il laboratorio dell’antipopulismo europeo? Può piacere o no, ma non volere Draghi al Quirinale non significa fare di tutto per lasciarlo a Palazzo Chigi per i prossimi sei anni, come se le elezioni non contassero nulla, ma significa fare di tutto affinché l’Italia, nei prossimi sette mesi, perda contemporaneamente sia Draghi sia Mattarella. Meglio evitare.

Di più su questi argomenti:
  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.