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Angeli o avvoltoi?

Non solo Tim. Il gioco duro dei fondi sull'Italia

Stefano Cingolani

Ecco tutto ciò che hanno già conquistato nel Belpaese. Imprese ricche o da risanare, immobili di prestigio, società di calcio. Stanno pure per chiudere l’acquisizione delle Autostrade di Benetton 

Un secolo fa c’erano i robber baron, poi lo scettro è finito in mano ai bankster che hanno dominato le Borse indirizzando gli gnomi di Wall Street, finché i barbari non sono arrivati alle porte. Adesso sono loro i veri padroni, ben oltre le previsioni di Karl Marx, più avanti delle analisi di Joseph Schumpeter. Robber baron, padrone ladrone, così venivano chiamati dalla stampa radicale i grandi capitalisti che a cavallo tra Otto e Novecento crearono la potenza economica americana: John Rockefeller, il barone del petrolio, Cornelius Vanderbilt, il commodoro, signore del mare, Andrew Carnegie, siderurgia, Jay Gould, ferrovie, James Buchanan Gould, tabacco. Da loro emerse con sempre maggior potenza distruttiva, ma anche costruttiva, John Pierpont Morgan, che s’impadronì delle acciaierie di Carnegie rimaste a secco di capitali e introdusse un sistema che nel tempo sarebbe diventato famoso, quel leveraged buyout di cui in questi giorni si torna a parlare in Italia per la scalata a Telecom Italia. Ma anziché fare uno spezzatino, JP Morgan fuse la Carnegie Steel Corporation con altre imprese siderurgiche in affanno, creando uno dei più grandi gruppi mondiali, lo United States Steel. 

 

Su Pierpont, raffigurato dalle vignette popolari come banchiere-gangster, con il suo sigaro avana e l’orologio nel panciotto, fiorirono leggende: guidava il suo impero finanziario-industriale dallo yacht ancorato sul fiume Hudson di fronte a Wall Street, dove gli uffici della banca non avevano numero civico perché non ne avevano bisogno. Morì nel 1913 a 76 anni nella suite reale del Grand Hotel Plaza di Roma dove amava soggiornare una volta l’anno. Aprì la stagione della banca padrona, interrotta dalla grande crisi degli anni Trenta e dalla legge, il Glass Steagal Act, che separò la banca dall’industria; aprì la strada alla nascita di quei nuovi protagonisti della finanza che esplosero nella seconda metà del “secolo americano” quando, in piena era reaganiana, i barbari sfondarono le porte. Questo piccolo compendio tra storia e leggenda ci introduce al presente e prepara il futuro.

 

Una generazione di giornalisti, finanzieri, giovanotti rampanti (gli yuppies passati di moda, ma mai scomparsi) ha studiato e mitizzato i nuovi re di danari. Poi, quando è scoppiata la crisi finanziaria del 2008-2010, cinema, narrativa popolare e social media li hanno demonizzati. Il bestseller di Bryan Burrough e John Helyar, intitolato “Barbari alle porte”, racconta la scalata del 1989 alla Nabisco, il maggior conglomerato alimentare americano, e l’irrompere di Kkr, lo stesso fondo che oggi vuol comprarsi la Tim con i suoi gioielli, certo, ma anche con tutti i suoi debiti che superano abbondantemente il giro d’affari. La Nabisco, fino ad allora incontrastata regina dei biscotti, venne smontata, rimontata, risanata. Kohlberg, Kravis e  Roberts divennero ancor più ricchi, ma soprattutto famosi in tutto il mondo. Se volessimo raccontare la storia attraverso singoli eventi e condottieri potremmo dire che Kkr-Nabisco ha avuto lo stesso impatto di JP Morgan-Carnegie, aprendo la strada a una nuova fase del capitalismo finanziario e industriale. 
 

Angeli e avvoltoi

“Il private capital sarà il protagonista di questo secolo come nel secolo scorso lo sono state le banche e la Borsa”, sostiene l’economista Innocenzo Cipolletta, presidente dell’Aifi. “E l’Italia non è seconda a nessuno”. L’Aifi è l’associazione italiana del settore, Cipolletta è un economista cresciuto studiando la congiuntura, è stato direttore generale della Confindustria, ha lavorato in una banca d’affari, ma non si può certo definire un esponente della turbofinanza, tuttavia a suo avviso saranno loro i protagonisti, i veicoli privilegiati per indirizzare il risparmio degli italiani verso l’economia reale. Ma chi sono e che cosa fanno? Entriamo in un universo complesso che risponde a una esigenza in sé molto semplice: far fruttare i risparmi affidati a professionisti dell’investimento (e del rischio perché senza rischio non c’è guadagno). Questa funzione di base viene realizzata da fondi di natura diversa che tendono sempre più a specializzarsi.

 

BlackRock il più grande al mondo con un patrimonio gestito vicino ormai a diecimila miliardi di dollari, opera come una vera e propria banca, ma si è dotato nel 2019 di un nuovo braccio operativo, chiamato Ltpe, Long Term Private Equity perché il fenomeno più nuovo e senza dubbio più dinamico è proprio il private equity. Consiste nel finanziare una società non quotata in Borsa, ma dotata di elevate potenzialità di crescita, per poi disinvestire con lo scopo di ottenere plusvalenze dalla vendita della partecipazione azionaria. I fondi valutano le opportunità presenti sul mercato e vanno ad acquistare le quote in un arco di tempo fissato a cinque anni. Nella fase successiva vengono analizzate e valorizzate tutte le aziende presenti in portafoglio, e si procede alla loro liquidazione per trarne un utile. I gestori usano capitali ricevuti da ricchi magnati, gruppi bancari, fondi pensione e compagnie di assicurazioni. Esistono diversi tipi di private equity. Nei fondi avvoltoio il denaro viene investito in società in difficoltà che mostrano unità o attività aziendali con prestazioni al di sotto della media. Il fine è quello di cambiarle intervenendo con modifiche nella loro gestione operativa, oppure di smantellarle per guadagnarle dalla vendita di macchinari fisici, beni immobili, o proprietà intellettuali. La forma più popolare di finanziamento è il cosiddetto leveraged buyout, che prevede l’acquisizione completa di una società allo scopo di migliorarne la salute finanziaria e commerciale, per poi rivenderla.

 

Abbiamo poi la Real Estate Private Equity, focalizzata sugli immobili commerciali e i fondi di investimento immobiliare. Un’altra tipologia è il fondo dei fondi, detto anche multi-manager investment, che si concentra sui fondi speculativi e sui fondi comuni di investimento, consentendo ai piccoli investitori di creare massa critica e massimizzare così il rendimento. C’è poi il venture capital, in cui gli investitori, noti anche come “angeli”, forniscono direttamente capitale agli imprenditori sia per far crescere l’azienda sia per lanciare un nuovo prodotto. Così come gli avvoltoi non sono ferali fino in fondo, gli angeli non sono del tutto paradisiaci. Gli uni e gli altri fanno rivivere in forme diverse quel che sembrava morto. Secondo Private Equity International, i dieci maggiori operatori del mondo sono attualmente Blackstone, Carlyle, Kkr, Texas Pacific, Warburg Pincus, Cvc Capital Partners, Eqt, Advent, Vista. Tra i più attivi in Italia occorre aggiungere BlackRock, Elliott, Macquarie, 777 Partners, e fondi sovrani (cioè posseduti da singoli stati) come il norvegese Norges, Aabar (Emirati arabi uniti), Pif (Arabia saudita), Cic (Cina).

 

Italia riserva di caccia

Rimasta a lungo in periferia, l’Italia è diventata un fertile terreno per la grande finanza internazionale. Dalle ferrovie alle autostrade, dall’immobiliare alle telecomunicazioni, dalla moda all’alimentare, l’intervento è ad ampio raggio. Nel primo semestre di quest’anno i fondi di private equity e venture capital hanno segnato cifre da record, è stato il miglior periodo dell’ultimo quinquennio. Secondo i dati diffusi il 13 settembre dall’Aifi con Pwc Deals, la raccolta pari a 2,9 miliardi di euro è salita del 194 per cento rispetto allo stesso periodo del 2020 , mentre gli investimenti sono schizzati a 4,55 miliardi (+142 per cento in un anno e oltre il doppio rispetto a cinque anni fa) con 253 operazioni (+102 per cento), tra queste 129 operazioni nelle fasi di avvio di imprese e 70 acquisizioni. La gran parte del denaro è andata alle infrastrutture con 2 miliardi (il 44 per cento del totale), seguite dal comparto tecnologico, dal medicale e dai beni e servizi industriali. Quasi sette operazioni su dieci sono state concluse con aziende del nord, il 21,1 per cento al centro e solo una su dieci al sud. I disinvestimenti sono aumentati del 76 per cento a 697 milioni, con 43 cessioni a soggetti industriali o ad altri fondi. Il fenomeno più recente e di risonanza popolare riguarda l’ingresso nel calcio: il Milan ha fatto da battistrada, adesso è toccato al Genoa, rilevato dall’americano 777 Partners. Tra i 154 affari completati nei primi sei mesi dell’anno, c’è l’acquisizione del 60 per cento in Open Fiber, ceduta per 2,7 miliardi dall’Enel a un consorzio composto da Cdp Equity e dal fondo australiano Macquarie Infrastructure and Real Assets (Mari). A marzo, Cdp Equity, Blackstone Infrastructure Partners e Mari hanno offerto 9,3 miliardi per Autostrade per l’Italia (Aspi) ceduta da Atlantia che fa capo alla famiglia Benetton, ma dove è presente il fondo di Singapore Gic. Una volta completata sarà la maggiore operazione mai realizzata in Italia nel settore delle infrastrutture.
 

Blackrock

Non possiamo non cominciare da qui, dal fondo 5 per cento. Lo chiamano così e si capisce subito perché: col 5,24 per cento delle azioni è il principale azionista di Unicredit, ma possiede un pacchetto del 5 per cento anche in Intesa Sanpaolo. Aveva una quota nella banca Ubi, che poi è stata completamente acquisita da Intesa. E ancora un 5 per cento in Prysmian, il gruppo dei cavi ceduto dalla Pirelli ai suoi stessi manager finanziati dalla Goldman Sachs. In Enel è salito sopra la sua soglia canonica, in Leonardo è appena sceso al di sotto. Èuscito da Telecom, ma è presente in Terna e in Parmalat. Adesso punta forte sulla transizione ecologica: è stato il fondatore Larry Fink a lanciare la grande svolta due anni fa e tutti lo hanno seguito. Dicono di BlackRock che è come il wifi, non si vede, ma deve stare dappertutto. In Italia è arrivato in punta di piedi vent’anni fa, ma è rimasto sotto traccia fino al 2014 quando Larry Fink ha incontrato Matteo Renzi e tutti giù a scrivere sul patto leonino con la plutocrazia globale. BlackRock gestisce patrimoni italiani per circa 100 miliardi di euro ed è in continua crescita. Non opera come i cugini del private equity, tuttavia è in grado di influire in vario modo nella vita delle imprese: con le sue analisi, con la compravendita in Borsa, con le posizioni che prende a favore o contro l’operato degli amministratori, con il sostegno a consiglieri più o meno indipendenti. Guai al manager che non accontenta la “roccia nera” di Wall Street.

 

Blackstone

Nonostante il nome non ha nulla a che fare con BlackRock. Nasce negli immobili e detiene uno dei più grandi portafogli immobiliari del mondo con 196 miliardi di dollari in gestione. A Milano, dopo la sede del Corriere della Sera in via Solferino, quella di Cassa Depositi e Prestiti in via San Marco e il Palazzo delle Poste in piazza Cordusio, è arrivato il turno del “mattone della nobiltà”. Il fondo, infatti, è il nuovo proprietario della Reale Compagnia Italiana, all’interno della quale sono custoditi 14 immobili di prestigio. Valore dell’operazione: oltre un miliardo e 300 milioni di euro più 140 milioni di debiti, per un totale che si avvicina a 1,3 miliardi di euro. La vendita della sede del Corsera è stata impugnata da Urbano Cairo, convinto che sia stata pagata troppo poco. L’editore della Rcs ha sfidato il colosso americano, si è scritto di una lotta impari, di Davide e Golia, uno stuolo di avvocati duella in punta di diritto, ma Blackstone ritiene che siano stati lesi i suoi interessi e chiede risarcimenti stratosferici: si dice 300 milioni da Rcs e altrettanto da Cairo editore. Entro la fine dell’anno si capirà come potrà finire.

 

Cvc Capital

Università private, consulenza, diritti tv del calcio, farmaceutica. Non si ferma il fondo britannico nato nel 1981 come braccio operativo europeo di Citicorp, che negli ultimi anni ha investito in Italia circa 5 miliardi di euro. Il top manager Giampiero Mazza, dal suo arrivo nel 2010, ha fatto shopping. Nel 2016 ha rilevato Sisal, uno dei principali operatori del gioco in Italia, per un miliardo di euro. L’anno successivo compra per quasi 300 milioni di euro la Pasubio, azienda di Vicenza specializzata in pelli per l’industria automobilistica. Nel 2018, a capo di un consorzio con altri fondi, acquisisce per 3 miliardi di euro il controllo dell’azienda farmaceutica italiana Recordati rilevando il 51,8 per cento detenuto dalla famiglia del fondatore. Poi arriva Pegaso, l’università telematica online. E soprattutto lo sport. Lo scorso anno Cvc aveva proposto ai club di serie A la creazione di una società per gestire i diritti del campionato, un affare da due miliardi di euro. Macché. Tutto sfumato. Andrea Agnelli intendeva lanciare la Superlega. Ma non s’è fatto nulla di nulla. Nell’agosto scorso Cvc ha stretto un accordo con la Liga spagnola per il 10 per cento, portando ben 2,7 miliardi di euro. Il fondo è attivissimo nello sport: aveva il controllo della Formula 1 e nel 2016 l’ha venduto alla Liberty Media di John Malone, incassando 4,4 miliardi di dollari. Mentre nel 2020  ha stretto un accordo per i diritti del torneo di rugby Guinness PRO14 tra Galles, Irlanda, Scozia, Italia e Sud Africa. Panem et circenses.
 

Elliott

Lo stesso dicasi per il fondo creato da Paul Elliott Singer nel 1977 grazie all’aiuto economico di amici e parenti, una “colletta” da 1,3 milioni di dollari. Ha cominciato facendo arbitraggio in Borsa, ma colpito dalla crisi finanziaria del 1987 ha cambiato ramo. Al 31 dicembre 2020, Elliott gestiva masse pari a circa 41,8 miliardi di dollari. In Italia era entrato in Telecom con quasi il 10 per cento, ma un anno fa ha venduto tutto rimettendoci un bel gruzzolo. Possiede l’hotel Bauer a Venezia, colpito anch’esso dalla pandemia. E soprattutto si trova in mano il Milan. Nell’aprile 2017 aveva prestato 303 milioni all’imprenditore cinese Li Yonghong per completare l’acquisizione del club rossonero dalla Fininvest di Silvio Berlusconi. Salvo che Li si è squagliato e il 10 luglio 2018 Elliott ha assunto il controllo e nominato presidente Paolo Scaroni. Si è scritto più volte che il fondo aspetta solo la buona occasione per vendere, però quest’anno le cose vanno bene e il Milan potrebbe anche vincere il campionato. Tra tutti Elliott è quello che più ha alzato la voce nelle imprese delle quali è socio, a favore dei piccoli azionisti, lo ha fatto nell’Ansaldo Sts e anche in Telecom Italia, dove però ha preferito mollare tutto. Nell’ottobre 2018, il fondo è intervenuto nel Credito Fondiario, istituto attivo nei crediti deteriorati, con circa 51,5 miliardi di masse in gestione, acquisendone l’81 per cento, con un aumento di capitale di 65 milioni di euro. E’ un mercato che può essere molto redditizio, soprattutto in Italia.

 

Kkr


Mette sul piatto 11 miliardi di euro per comprarsi Telecom Italia (oggi Tim). Lo ritiene un buon affare perché il gruppo telefonico italiano che negli anni Novanta del secolo scorso era un dei maggiori in Europa, è sottovalutato. Ha debiti superiori al capitale, le sue azioni valgono meno di 40 centesimi, la gestione operativa continua a perdere. Eppure nasconde in pancia attività che potrebbero essere valorizzate se portate fuori dal perimetro e collocate in nuove società. Lo chiamano spezzatino, è il modus operandi del venture capital, ma è anche una soluzione razionale. Chi ha seguito il tormentone telefonico ricorda nel 2006 il piano di Pier Aldo Rovati, amico e consulente di Romano Prodi, per scorporare le infrastrutture dai servizi di telecomunicazione. Il progetto fallì, Rovati se ne assunse la responsabilità visto che Prodi era diventato presidente del Consiglio. E dopo 15 anni siamo sempre allo stesso punto. Se Tim fosse un’azienda come le altre non starebbe in piedi, ma è una impresa di sistema, o strategica, soprattutto perché possiede la rete importante anche se in rame, i cavi sottomarini che trasportano comunicazioni sensibili, e anche una nuvola di dati. Insomma, nonostante sia stata privatizzata nel 1997 resta sotto l’usbergo della politica. Non sappiamo come andrà a finire, Kkr offre mezzo euro ad azione e non intende salire (almeno per ora). L’azionista numero uno, la Vivendi di Vincent Bolloré, non vuole vendere, il governo che potrebbe mettere il veto utilizzando il golden power, accetta lo scorporo della rete mettendo in campo la Cassa depositi e prestiti magari insieme alle Poste. A Kkr interessano le infrastrutture, ma anche i media, e non a caso è il primo azionista del gruppo tedesco Axel Springer e possiede una quota della rete tv Prosiebensat1, della quale Mediaset è primo azionista con il 24,9 per cento, anche se non riesce a far passare la sua linea. Vivendi è entrata in Mediaset, dove è stata stoppata dall’azione convergente della Fininvest di Berlusconi, dell’antitrust, dei magistrati, dei  governi italiani che si sono succeduti in questi anni. Tutti intrecci complessi che hanno prodotto una situazione di stallo. Può darsi che la battaglia per il controllo di Tim metta tutto in movimento. Il seguito alla prossima puntata.   

 

Finanzieri e sovrani

Non si creda che politica e finanza s’intreccino solo in Italia. Il big government è sempre più invadente, come scrive l’Economist, ma in fondo lo è sempre stato, nemmeno Ronald Reagan e Margaret Thatcher hanno invertito in modo permanente la tendenza. Oggi però esistono strumenti nuovi e più sofisticati come i fondi sovrani. Il più grande al mondo è quello norvegese, a fine giugno faceva registrare in valore superiore ai millecento miliardi di euro, nei primi sei mesi di quest’anno ha guadagnato circa cento milioni con un rendimento che sfiora il 10 per cento. Alimentato dalle royalty petrolifere il suo compito è far sì che la ricchezza nazionale duri il più a lungo possibile e il welfare state sia sostenibile. In Italia ha un vasto ventaglio di partecipazioni in banche e imprese, ha dichiarato guerra alla CO2, ma si muove con la prudenza dei finanzieri consumati.

 

Più mobili sembrano i fiondi arabi. Aabar la filiale lussemburghese del fondo di Abu Dhabi era diventato il primo singolo azionista di Unicredit suscitando perplessità anche politiche in Italia. L’Investment Corporation di Dubai ha come fiore all’occhiello il 5 per cento della Ferrari, che visto il balzo delle sue quotazioni gli frutta denaro sonante. Molto dinamico Pif, il fondo saudita presieduto dal principe ereditario Mohḥammed bin Salmaān. Si dice che sia interessato alla Fiorentina, mettendosi sulla scia di un calcio che offre di più, anche sul piano economico, di quel che dà. I maligni sostengono che è tutta opera di Matteo Renzi che fa la spola con Riad. Il fondo del Qatar è dal 2015 il proprietario unico di Porta Nuova, l’area del capoluogo lombardo dove sono sorti numerosi nuovi grattacieli tra cui la torre che ospita la sede di Unicredit, ed il cosiddetto Bosco verticale. La parte residenziale comprende 380 unità abitative in 13 edifici. Il Qatar ha comprato anche l’hotel Baglioni e l’Excelsior a Roma, lo Starwood a Firenze, il Gritti a Venezia, il palazzo di Piazza di Spagna dell’American Express in cui hanno piazzato la sede della maison Valentino, anch’essa di loro proprietà. Di tutt’altro tenore il fondo sovrano Cic (China Investment Corporation) che dall’ottobre dello scorso anno ha stretto un accordo con Unicredit e Investindustrial di Aldo Bonomi. Il Ciif (China Italy Industrial Cooperation Fund) vuole intervenire in imprese di primaria importanza. Nelle infrastrutture è entrata la State Grid Corporation, che è la più grande società che gestisce la rete elettrica, fondata dal Partito comunista cinese. Nel 2014 ha acquistato per due miliardi di euro dalla Cassa depositi e prestiti il 35 per cento della Cdp Reti che controlla Terna e la Snam. Altri tempi, quando la nuova Guerra fredda era ancora in culla e l’Italia s’illudeva su magnifiche sorti lungo la Via della seta. Tempi culminati nella firma del governo giallo-verde (M5s e Lega) del Memorandum d’intesa tra Roma e Pechino. E adesso? Adesso si dice finanzieri sì, sovrani no. Sarebbe bello separare politica e affari, ma così non gira il mondo.

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