Buoni motivi per non imporre vincoli all'Opa di Kkr su Tim

Franco Debenedetti

Strategicità della rete unica? Parliamone. Imporre lo spezzatino sarebbe un segnale pessimo per il paese

“Franco, ho convinto Bertinotti: la vendiamo tutta!”. La voce al telefono è quella di Carlo Azeglio Ciampi, e ciò di cui parla è Stet, poi Telecom Italia, oggi Tim. Allora si discuteva se il governo dovesse tenere una quota dell’azienda, e “tutta” voleva dire il 100 per cento delle azioni. Oggi “tutta” ha un altro significato, tutto quanto c’è nel perimetro aziendale di Tim S.p.A. Gli statalisti che allora volevano che il governo conservasse una parte delle azioni, oggi vorrebbero che prendesse un pezzo di azienda. Quando la parola ha cambiato significato?


E’ stato nel 2007. Per contrastare un progetto industriale di Marco Tronchetti Provera che allora ne aveva il controllo, spuntò il piano Rovati: Telecom venda la rete, e così riduca una parte del debito contratto dai “capitani coraggiosi” per l’Opa del 1999. Variamente motivata, da allora l’idea di separare la rete dal resto della società è una costante nel dibattito politico-economico, una sorta di basso continuo per il gran concerto dell’orchestra della politica industriale, dei suoi professionisti al governo e dei suoi dilettanti sui giornali. Il ritornello è modulato sulla parola “strategico”: in assenza di un progetto specifico, vuol dire “disponibile per ogni strategia”. Cioè che funzioni bene, che costi poco, che risponda alle necessità di sviluppo del paese. Ma questo è nell’interesse dell’imprenditore: se non lo realizza, il mercato lo punisce; qualcuno, pensando di poter far meglio, lo sostituirà.


Che c’entra la nazionalità del controllante? L’azienda vive del rapporto con i suoi clienti, “trasferirla” è impossibile. Se il governo pensa che non investa abbastanza, che sia italiano o straniero, ha i mezzi per convincerla, compreso quello di fargli diretta concorrenza, come è avvenuto con Open Fiber. Il controllo di Telecom l’hanno avuto: il “nocciolino” con Fiat; Colaninno, Gnutti e gli altri “capitani coraggiosi”; la Pirelli di Marco Tronchetti Provera (che tra l’altro i sistemi ottici li produce); gli spagnoli di Telefónica; il gotha del nostro capitalismo; i francesi di Vivendi. E adesso per tenere a bada un grande e rinomato fondo statunitense dovremmo azionare un ancor più rigoroso golden power? Un non senso evidente, dietro il quale c’è il desiderio di cogliere l’occasione per attuare un disegno di politica industriale, separare la rete di trasmissione dai contenuti trasmessi, che una volta erano analogici (“la tua voce”, come recitava la pubblicità), oggi sono digitali, cioè i preziosissimi dati. “Strategico” non è il possesso, ma l’assetto sistemico. I difensori dell’italianità diventano paladini della concorrenza: se oltre a vendere connettività e contenuti, l’incumbent possiede anche la rete con cui li trasmette, cioè se è verticalmente integrato, è in posizione dominante rispetto ai concorrenti che devono per forza servirsi della sua rete. Lesione della concorrenza, rimediabile solo imponendole di vendere la rete.


Peccato che questa non sia l’unica soluzione, anzi che sia la soluzione da evitare. L’ex monopolista pubblico è verticalmente integrato in Inghilterra, Germania, Francia, Spagna, Olanda e così via: a evitare la concorrenza sleale si impone la separazione societaria (non proprietaria dunque) con il regolatore indipendente che dall’interno controlla che non ci sia disparità di trattamento. Tra i paesi importanti, solo Australia e Nuova Zelanda hanno imposto la separazione proprietaria: con risultati pessimi.


Il rischio imprenditoriale è sempre che si spenda di più di quanto si ricava: bisogna che nel tempo quello che l’azienda spende per investire sia meno di quanto pensa di ricavarne. Se prevede che resti un margine positivo investe, altrimenti no. E quanto più vicine sono le due funzioni aziendali, spendere e ricavare, tanto più facile sarà trovare l’intesa e investire. Se il rischio imprenditoriale è diviso tra due imprenditori diversi, più difficile sarà concordare su quanto investire. Per questo Telecom Italia e Tim hanno sempre sostenuto che si può anche vendere una quota della rete, ma alla condizione irrinunciabile di mantenere il controllo. In FiberCop, società della rete costituita in Tim con Fastweb, la stessa Kkr ha ultimamente investito. Venderne sul mercato un’ulteriore quota è possibile, basta che sia mantenuto il controllo in testa a Tim. Non se ne curano invece quelli che vorrebbero che FiberCop seguisse il modello Terna e Snam Rete Gas, una public company con Cdp socio di controllo relativo. Un paragone mal posto: queste ultime operano su monopoli naturali, mentre non lo è la rete telefonica, si pensi a Fastweb, a Eolo, alle tante reti minori, a Open Fiber.


Già, Open Fiber: con la società voluta da Renzi per fare concorrenza a Tim, agli adepti della strategicità, a quelli della concorrenza, gli statalisti vestono adesso le vesti della razionalità economica, temono che si possano duplicare gli investimenti nella banda larga. Come se non ci fossero mezzi meno cruenti per evitarlo, magari semplicemente scambiandosi una mail. Open Fiber è pubblica, e oggetto di molte critiche: acquisire la dimensione della rete di Tim, la sua infrastruttura, le sue competenze tecniche, sarebbe miele per gli statalisti e leverebbe argomenti a chi ne indica le deficienze. Per fortuna a Bruxelles non sono d’accordo a questa riduzione della concorrenza: c’è solo da augurarsi che l’immenso credito di cui gode Draghi non venga usato per far cambiare idea alla commissaria Vestager.


Il governo ha reagito bene all’intenzione di Opa annunciata da Kkr: il ministro Franco si è rallegrato della fiducia nell’Italia che questo dimostra. E anche l’idea di usare i poteri del golden power per giocare alla politica industriale è rimasta finora sottotraccia. L’Opa di Kkr è sull’intero perimetro aziendale di Tim: imporre vincoli, o di ritagliarne dei pezzi, sarebbe una ben negativa risposta alla fiducia di cui ci siamo rallegrati. Tra i commentatori invece la tentazione di giocare alla politica industriale, e di fare l’allenatore della nazionale, è stata irresistibile. Sembra che si sia calmata presto, in attesa degli sviluppi. Proprio in vista di questo si è pensato potesse essere utile fare una sintesi degli argomenti addotti.

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