Luigi Sbarra Segretario CISL, Carlo Bonomi Presidente Confindustria(Foto Mauro Scrobogna /LaPresse)

I problemi del green pass si risolvono solo con l'obbligo vaccinale

Carlo Alberto Carnevale Maffè

L’uscita dell’emergenza è vicina. Servono responsabilità e razionalità, non compromessi con i complottismi populisti

Al direttore - Aver introdotto l’obbligo del GreenPass per i lavoratori - invece che il razionale, tradizionale, costituzionale e giustificatissimo obbligo vaccinale - si sta rivelando, come previsto, un boomerang economico e sociale. Tuttavia, l’editoriale nel quale sostieni che i risultati sono soddisfacenti perché hanno migliorato di qualche punto percentuale i volumi di prime dosi rispetto alla Germania e suggerisci alle imprese a far rientrare dalla finestra del tampone sussidiato ciò che si cerca di far uscire dalla porta dell’adesione vaccinale, è basato su deboli e infondati argomenti logici ed economici. Provo a spiegare perché.

 

Quando si adotta una policy così invasiva per la libertà dei cittadini e per gli effetti sulle imprese come il GreenPass obbligatorio è necessario dichiarare i target da raggiungere e predisporre un’analisi di impatto, comparata con le alternative disponibili. Altrimenti le differenze con il paternalismo pasticcione del Governo Conte sfumano. Il Governo non lo ha fatto e quindi ci troviamo a valutare una scelta senza un chiaro metro di giudizio. Solo questo basterebbe a giustificare le critiche più razionali.

Dell’attuale GreenPass obbligatorio per i lavoratori sono incongruenti l’implicito e mai dichiarato obiettivo sanitario, il disegno tecnologico e giuridico, nonché la (mancata) stima dell’impatto economico e organizzativo. Troppo, per un giudizio benevolo.

L’obiettivo sanitario del GreenPass per i lavoratori era, presumibilmente, quello di sollecitare l’adesione vaccinale, raggiungere così l’immunità di comunità e uscire dall’emergenza sanitaria. Ma tale intento era, ex ante, incoerente con i dati: si stima che solo circa il 40 per cento degli italiani tuttora non vaccinati con la prima dose siano lavoratori; una percentuale ancora minore risulta impiegata in contesti organizzati, nell’ambito dei quali è ragionevole attendersi controlli sistematici. Anche un’adesione pressoché totale dei lavoratori avrebbe lasciato quasi 5 milioni di cittadini sopra i 12 anni da vaccinare. Questo valore avrebbe consentito di togliere spazio alla trasmissione di un virus con gli elevatissimi tassi di contagiosità rilevati con la variante Delta? Non è dato capirlo dalle scelte del Governo.

Ex post, l’obiettivo del “nudging”, ovvero la spinta gentile a vaccinarsi, si sta rivelando non solo inefficace, ma addirittura controproducente. I dati a supporto non sono convincenti. Nel periodo successivo all’introduzione del green pass per i lavoratori, la media giornaliera delle prime dosi di vaccino (fonte: report vaccini anti COVID-19 del Governo) è scesa a 65.290 trattamenti, il 31 per cento in meno rispetto al mese precedente al 22 settembre. In confronto ai dati medi di luglio, il crollo è di circa il 60 per cento. Eppure mancano all’appello con la prima dose ancora circa 8 milioni di cittadini oltre i 12 anni. Il Governo difende la sua scelta dicendo che le prime dosi sono marginalmente cresciute in confronto con il trend registrato in Germania. Ma nessuno vuole metter in dubbio che il GreenPass possa avere un minimo effetto positivo sulle adesioni: il problema è dimostrare che i magri benefici siano efficienti e razionali rispetto ai costi, ai tempi e alle opzioni alternative praticabili.

 

Se l’obiettivo era convincere la grande maggioranza dei novax entro fine anno, i dati ad oggi disponibili segnalano che tale strategia non sta avendo successo. Le prime vaccinazioni non solo non sono aumentate, ma hanno continuato a diminuire a tassi elevati anche dopo il decreto che introduceva l’obbligo vaccinale per accedere ai luoghi di lavoro.

Anche lo strumento utilizzato ha evidenziato fin da subito pesanti limiti tecnologici e giuridici. Disaccoppiare il green pass dalla certificazione d’identità vuol dire incentivare le frodi e le copie illegali. Mentre per il transito transfrontaliero – ambito originale di applicazione del GreenPass - è da sempre ritenuta legittima la prassi dell’identificazione dei soggetti, controllare la condizione sanitaria associata all’identità dei cittadini su base quotidiana e in tutto il territorio nazionale è, oltre che in contrasto con i principi alla base dalla tutela dei dati personali, un indiscutibile incubo civile e logistico. Il tutto per quanto tempo? Settimane, mesi o magari un altro anno? E con quali doveri di segnalazione in capo alle imprese, con quale effettiva possibilità di sostituire i lavoratori novax e di pianificare le proprie scelte organizzative? Un’efficace soluzione tecnologica per il passaporto sanitario digitale, rispettosa della privacy e collegata a sistemi di tracing, poteva e doveva essere messa a punto in tempo, adottando uno standard europeo come raccomandato già dallo scorso anno ad aprile all’e-Health Network della Commissione Europea. Questa specie di lasciapassare fotocopiabile rimane tuttora un accrocchio tecnologicamente e giuridicamente poco presentabile.

Ma l’errore più grave è stata la mancata valutazione di impatto sociale dei costi organizzativi ed economici imposti alle imprese, chiamate impropriamente a svolgere il ruolo di sostituto dello Stato nei processi di tutela della salute pubblica. Decine di milioni di controlli giornalieri, da effettuarsi con personale e tecnologie dedicati, con aggravio economico stimabile in centinaia di milioni di euro al mese: tutto questo costituisce una tassa implicita sulla sicurezza nei luoghi di lavoro, a carico dei bilanci aziendali. La pelosa concessione relativa ai controlli a campione è irrazionale in logica di mitigazione del rischio, in quanto l’eventuale ritardo nell’individuazione di un focolaio di contagio costringerebbe l’impresa a una quarantena estesa a interi reparti se non a tutto il personale aziendale, con ingenti danni economici e reputazionali.

L’effettuazione di tamponi a carico dell’impresa presenta elevati e permanenti costi diretti (l’effettuazione del test e l’ulteriore carico burocratico a carico delle autorità sanitarie) e indiretti (il tempo perso e l’impatto sulla produttività dei lavoratori novax per l’effettuazione di tamponi ogni 48 ore). Pagare i tamponi ai dipendenti novax va quindi giudicata un’inaccettabile forma di welfare improprio e asimmetrico, del tutto iniqua e discriminatoria, che comporta una sperequazione di centinaia di euro mensili per ogni lavoratore interessato, e che va paradossalmente a favorire chi, lungi dall’avere meriti, sceglie un comportamento irresponsabile che mette a rischio la salute di colleghi, clienti e fornitori. Si tratta di un grave incentivo al comportamento opportunistico e al free riding, l’antitesi di ogni scelta organizzativa razionale, sia in termini strettamente aziendali sia in generali termini sociali. Il tutto per un tempo indefinito, visto che l’effettuazione di tamponi, al contrario della vaccinazione, non costituisce strumento risolutivo per il superamento dell’emergenza sanitaria. Incentivare il sussidio dei tamponi per i novax è una clamorosa ingiustizia sociale e un’insostenibile distorsione economica.

Oltre ai costi immediati e permanenti, a essere negativo è anche l’effetto sugli investimenti. L’ulteriore incertezza indotta dall’irresponsabilità di alcune forze politiche, oltre che dai gesti criminali di minoranze violente, rischia infatti di disincentivare la ripresa degli investimenti, dalla quale dipende la gran parte del rimbalzo del Pil nonché la futura sostenibilità del debito pubblico e privato. La stessa Nadef affida al contributo degli interventi in conto capitale il massimo contributo alla crescita economica nei prossimi mesi, a fronte di una dinamica di ripresa dei consumi privati tuttora inferiore a quella aggregata del Pil.

L’alternativa disponibile al Governo era fin dall’inizio - ed è tuttora - chiara ed efficace: estendere l’obbligo vaccinale, sulla base dei provvedimenti già adottati per il personale sanitario e delle Rsa, adottando analoghe prassi per controlli e sanzioni. Ciò consentirebbe di raggiungere il target del 90-95 per cento di copertura in poche settimane, con dosi di vaccino già pagate e disponibili a magazzino, e quindi in tempi certi e senza significativi costi aggiunti. L’uscita dell’emergenza è alla portata del Paese. Servono responsabilità e razionalità, non improbabili compromessi con il complottismo antiscientifico e populista.
 

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