La Cina ha una mossa per risolvere in casa il caos Evergrande

Mariarosaria Marchesano

Iniettare liquidità a breve termine, evitare il contagio del settore bancario e garantire la consegna degli immobili comprati dalla classe media cinese. Il governo di Pechino vuole ristrutturare il settore immobiliare scaricando il crac sugli investitori stranieri

La Cina cerca una soluzione alla crisi del colosso immobiliare Evergrande che, da un lato, scongiuri la possibilità del contagio sui mercati globali e, dall’altro, consenta alla società di completare la costruzione degli immobili in corso e di consegnare nei tempi previsti le case ai cittadini che hanno comprato sulla carta. Seguendo questo doppio binario, il governo di Pechino, che ha dato priorità alla domanda di abitazione a prezzi contenuti dei cinesi ma non è insensibile al discredito che questa scelta potrebbe gettare sulla sua credibilità internazionale, sta favorendo l’acquisizione della quota di maggioranza di Evergrande da parte di un altro grande gruppo immobiliare del paese, Hopson Development, fondato nel 1992 a Guangzhou. Della serie, i panni sporchi si lavano in famiglia.

La notizia, anticipata ieri dal Global Times, è considerata una svolta importante dagli osservatori di mercato perché è la prova che la Cina è decisa a smontare l’attuale assetto del settore immobiliare (e non solo) ma si sforza di circoscrivere gli effetti del collasso di Evergrande al mercato domestico e ai grandi investitori che hanno creduto nell’ascesa della società immobiliare e finanziato il suo debito che ha superato i 300 miliardi di dollari (Blackrock e Ubs sono annoverati tra gli operatori più esposti mentre Pimco, Barings e T.Rowe Price hanno limitato le perdite uscendo per tempo). Si tratta di un impatto in fin dei conti sopportabile per Pechino che ha promesso uno “sviluppo stabile e sano” nel settore immobiliare dopo le proteste civili per la crescita dei prezzi delle case. E pazienza se a rimetterci sarà qualche banca d’affari straniera che ha dato fiducia (troppa?) a un modello di sviluppo economico che, a parole, aveva sposato il libero mercato.

Secondo un’analisi di Alexis Bienvenu, gestore della casa d’affari francese, La Financiere de l’Echiquier, il governo cinese invece di lanciarsi in un salvataggio massiccio di Evergrande, sta iniettando più liquidità a breve termine nel sistema, evitando incendi a livello bancario e organizzando la ristrutturazione delle passività attraverso una simbiosi nazionale tra settore pubblico e privato avendo come priorità quella di evitare lo scontro con la classe media. “Le famiglie cinesi devono avere un alloggio – dice Bienvenu – Come potrebbe, altrimenti, il regime mantenere la promessa della prosperità condivisa? Gli edifici devono essere consegnati a qualunque costo”. Così, ne è sicuro l’esperto, “possiamo stare tranquilli sul fatto che, a prescindere dei disordini, l’onda d’urto della ristrutturazione sarà assorbita”.

E conclude: “Per trasformare Evergrande in una nuova Lehman Brothers la situazione dovrebbe essere molto più critica. E poi, anche gli Stati Uniti, oggi, andrebbero in aiuto di Lehman”. Ora, ammesso anche che Pechino riesca a contenere gli effetti su scala globale della crisi Evergrande, a gestire il tutto in ambito domestico e a rimborsare le cedole delle obbligazioni in scadenza – il che equivale a pagare oltre 7 miliardi di interessi – quale sarà l’effetto di tutta questa vicenda per l’immagine della Cina sui mercati internazionali?

La stretta regolamentare messa in campo non riguarda solo gli immobili, ma anche l’istruzione e l’hi tech. Secondo Columbia Threadneedle, uno dei maggiori fondi di investimento del mondo basato a Londra, “i mercati hanno cominciato a domandarsi se il sistema economico nato dalle riforme di Deng Xiaoping alla fine degli anni Settanta stia per cambiare definitivamente”. Il fatto è che nonostante le ipotesi su un intervento, per esempio, nel settore dell’istruzione si rincorressero da anni, il passaggio all’attività non profit costituisce uno scenario molto sfavorevole che pochi investitori avevano previsto insieme con la riduzione del mercato di riferimento di aziende come New Oriental e Tal Education da 100 a 25 miliardi di dollari. Di pari passo, il settore tecnologico è messo sotto pressione perché Pechino desidera che le aziende che ci lavorano prosperino sì ma in modo tale da soddisfare i suoi obiettivi politici. “Arriviamo così all’impatto di mercato di questi provvedimenti, che inducono molti operatori a domandarsi se il nuovo regime non precluda di fatto gli investimenti in Cina”, prosegue l’analisi di Columbia Threadneedle che, ammette, si è disfatta del suo investimento nel colosso tecnologico cinese Tencent, dopo aver detenuto il titolo per molti anni.

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