Un’immagine dell’incontro del 1982 tra il primo ministro britannico Margaret Thatcher e il presidente cinese Deng Xiaoping

La Lady e il Dragone

Dario Fertilio

Quando Thatcher visitò la Cina per la prima volta la trovò sgradevole, governata da gente ambigua e d’igiene approssimativa. Lo scontro con Deng Xiaoping fu così duro che il presidente cinese disse che la Lady di ferro doveva essere “bombardata”.

Sarà anche stata di ferro, ma la Lady Thatcher che sbarcò a Pechino all’una e mezzo di pomeriggio del 22 settembre 1982 non somigliava all’adamantina Meryl Streep, destinata a impersonarla quasi trent’anni più tardi in un film da Oscar. Il naso gonfio e arrossato per un brutto raffreddore, i postumi della visita di quattro giorni in Giappone durante la quale aveva dormito pochissimo, il fastidio al solo pensiero di ricorrere a Francis Pym, il titolare del Foreign Office che aveva tentennato nel momento decisivo della guerra per le isole Falkland, tutto questo le dava un’aria fosca e bisbetica da signora d’età, benché di anni ne avesse appena 57 e si potesse considerare all’apogeo delle sue fortune politiche. A peggiorarne lo stato d’animo stava il fatto che il suo autentico avversario riguardo al destino imminente di Hong Kong, il padre moderno della Cina Deng Xiaoping, era anch’egli sulla cresta dell’onda, fornito anzi di quella speciale aureola modernista e riformatrice che periodicamente fa sognare l’occidente al cospetto dei dittatori. (Che la Lady generalmente di ferro non ne fosse proprio immune si sarebbe visto due anni più tardi, quando all’esterrefatto intervistatore della Bbc avrebbe confessato con apparente candore: “Mi piace il signor Gorbaciov, possiamo fare buoni affari insieme”).

 

Ma in quel momento la gorbymania di corto respiro non era ancora scoppiata, e lei invece si preparava a giocare una difficile partita in trasferta, senza poter trattare Deng Xiaoping con lo stesso, demo-imperiale disprezzo che aveva appena riservato al generale argentino Leopoldo Galtieri. (Quest’ultimo, reo di averla sfidata militarmente per le isole Falkland-Malvinas, ne aveva pagato il prezzo con il disastro militare e la caduta successiva della sua giunta).

 

Ma poiché una donna di potere può e deve permettersi di dar retta al suo istinto, Margaret Thatcher in quel settembre rimuginava pensieri foschi in generale, riguardo alla Cina. L’aveva visitata cinque anni prima, allora a capo dell’opposizione di Sua Maestà, e non le era piaciuta. La Lady costituiva una vistosa eccezione rispetto alla regola che accomunava statisti e uomini d’affari europei, tutti abbagliati dal fatto d’essere ricevuti a Pechino, come moderni Marco Polo. Queste suggestioni con lei non attaccavano: già l’altra volta aveva trovato la Cina un posto sgradevole, governato da gente ambigua e dall’igiene approssimativa.

 

Il guaio era che, di memoria lunga, nel 1977 la nomenklatura ne aveva preso nota, e così si era premurata di allestirle un’accoglienza particolarmente fredda. Senza tener conto del fatto che per la prima volta un capo di governo britannico in carica visitava la Cina, il più importante giornale radio confinò la notizia del suo arrivo al quarto posto, dopo un commento sul recente congresso del Pc, un’inchiesta sui minatori della provincia di Henan, e l’annuncio dell’arrivo di un altro capo di stato straniero, il caro leader Kim Il-sung della Corea del Nord.

 

A tutto questo, però, la Thatcher prestò un’attenzione distratta, giacché al centro dei suoi malumori restava il molliccio ministro degli esteri Francis Pym. Se avesse potuto esprimersi apertamente, lo avrebbe definito uno scaredy-cat, un cacasotto, ma trovandosi in visita ufficiale si limitò a sibilare che le sarebbe costato davvero troppo ritrovarsi nella stessa stanza, per non dire nello stesso aereo, con Mr. Pym. E dunque, a costo di rompere con tutte le usanze diplomatiche britanniche, lo aveva lasciato a casa, limitandosi a portare con sé il segretario privato, l’addetto stampa, il neo governatore di Hong Kong e il sottosegretario del Foreign Office per l’Asia e il Pacifico. Non proprio uno squadrone da Champions League per fronteggiare il vantaggio numerico e logistico dei padroni di casa, che in più tenevano saldamente il coltello dalla parte del manico.

 

Comunque, la partita doveva giocarsela con le carte a disposizione. Prima della sua partenza, Francis Pym  nemmeno sotto tortura si sarebbe azzardato a proporle di abbandonare Hong Kong proprio nell’ora trionfale delle Falkland. Ma altri consiglieri le avevano suggerito prudenza. La Cina avrebbe preteso la sovranità su tutto il territorio a partire dal 1997, secondo i trattati, ma forse avrebbe concesso a Londra di amministrare la futura “zona speciale” secondo le regole del libero mercato capitalistico. I trattati ottocenteschi garantivano al Regno Unito la sovranità “perpetua” sull’isola di Hong Kong e su Kowloon, a differenza dei Nuovi Territori che invece secondo l’intesa avrebbero dovuto tornare a Pechino quindici anni più tardi. Ma non esisteva un confine fisico tra le due parti, il potere britannico era fragile e in caso di conflitto aperto sarebbe stato impossibile reggere l’urto politico-economico della Cina, meno che mai quello militare. Dunque si poteva al massimo tentare un compromesso al rialzo: distinguere fra sovranità e amministrazione, proponendo che quest’ultima restasse all’Inghilterra anche dopo la scadenza del 1997.

 

Poco prima di intraprendere il viaggio a Pechino, si era verificato allora un mezzo miracolo: la Lady di ferro aveva detto sì a chi le proponeva il compromesso. Forse non l’avrebbe fatto se fosse stato lo scaredy-cat in persona a depositare il fascicolo sulla sua scrivania, ma in quel caso una considerazione conciliante in lei aveva fatto capolino. Anzi, due.

 

La prima era che l’affare di Hong Kong non avrebbe potuto trattarlo a cannonate, non come le Falkland. Infatti, se le cose si fossero messe male, i boat-people in fuga verso il Regno Unito non si sarebbero contati a poche migliaia (come gli innocui, kelpers, i contadini delle Falkland) ma a milioni. E allora nemmeno Dio avrebbe potuto salvare la Regina e il suo governo da un terremoto. Il secondo ragionamento era che, per quanto personalmente sgradevole, questo signor Deng aveva dato finora l’impressione a tutti gli esperti, compresa la vecchia volpe Henry Kissinger, di aprire realmente l’economia comunista al libero mercato; e aveva persino proclamato di voler sguinzagliare per il Celeste Impero gatti in grado di afferrare i topi, qualunque fosse il loro colore. Da cosa poteva nascere cosa, come insegnavano i grandi pensatori liberisti. Perciò aveva detto sì.

 

La Lady si era goduta lo stupito sollievo dei suoi diplomatici, ma dietro al ragionamento aveva celato anche uno stato emotivo particolare: la vittoria delle Falkland era così dolce da permetterle di bere per una volta un bicchierino di amaro.

 

Ma ecco che, scendendo dalla scaletta dell’aereo in quel fatidico settembre dell’82, raffreddata e assonnata com’era, spiacevolmente colpita dal distacco che le manifestavano i funzionari cinesi, e seriamente preoccupata di lasciarsi truffare sul prezzo (era pur sempre figlia di un droghiere che sapeva il fatto suo), qualcosa dentro di lei si ribellò. Avvenne allora un fatto che avrebbe dovuto preoccupare Deng Xiaoping, se a sua volta non fosse stato un fuoriclasse del teatro politico: Margaret Thatcher smise di pensare alla strategia appena concordata e si dispose ad assecondare il suo istinto. Ad ogni costo avrebbe tenuta alta la bandiera dell’Union Jack.

 

Tuttavia, più che in qualsiasi altra circostanza della sua carriera, questa volta la Lady di ferro era sola. Il cuore la spingeva a combattere, mentre la ragione le ricordava le linee strategiche concordate col Foreign Office. Dall’aeroporto di Pechino venne condotta a Diaoyutai, la residenza dei capi di stato stranieri nel quartiere occidentale della città, dove si cambiò d’abito prima di partecipare alla cerimonia di benvenuto nella Grande Sala del Popolo, e poi all’incontro preliminare con il primo ministro Zhao Ziyang. La Thatcher apparentemente sorridente non era tranquilla, e lo divenne ancor meno durante il banchetto serale, quando al momento del brindisi Zhao toccò per la prima volta il punto dolente. Prima erano stati fatti circolare bicchieri di maotai, un liquore fatto di fermenti sorghum, dagli effetti assimilabili – definizione occidentale – a qualcuno che infili la testa in un armadio e poi preghi un amico forzuto di chiudere lo sportello. Contando sullo stordimento britannico, Zhao pronunciò un ambiguo discorso sulla necessità di risolvere i problemi aperti attraverso “serene consultazioni”.

 

Ma colei che gli rispose non fu il primo ministro di Sua Maestà, bensì la Lady di ferro. Avendo appena assaggiato il maotai, fu in grado di intimare: “Non abbiamo ancora cominciato le nostre discussioni su Hong Kong. Aspettiamo a parlarne domani!”. Ciò detto, la donna che aveva appena mandato in pensione i generali argentini apparve di buon umore e pronta a un buon sonno. Ma la partita era appena iniziata.

 

L’indomani fu Zhao, e non lei, a prendere l’iniziativa. Al mattino, in un corridoio della Grande Sala del Popolo dove la Thatcher lo stava aspettando, avvicinò un gruppo di giornalisti annunciando tra lo sbalordimento generale che presto la Cina avrebbe riacquistato la sovranità su Hong Kong.

 

E fu quella dichiarazione a sorpresa – una doccia fredda sugli inglesi che avevano contato fino a quel momento sulla riservatezza delle consultazioni – a fare immediatamente il giro del mondo. Il senso era chiaro: la Cina si sentiva libera di prendersi Hong Kong, con o senza il consenso britannico. Accortamente, Zhao aveva invocato anche la solidarietà “anti imperialista” dell’ex colonia.

 

Era un colpo duro, e come un pugile sorpreso in guardia bassa la Lady di ferro sembrò per un attimo vacillare. Il raffreddore che la tormentava nel frattempo era aumentato e la sua voce si era fatta roca, ma con uno sforzo si ricompose e decise che avrebbe combattuto ancora. Consumò molte energie per apparire sicura di sè: una visita all’Accademia di Belle Arti, un’apparizione alla mostra libraria del British Council, una cena con gli uomini d’affari all’hotel Jianguo, finché fu sul punto di addormentarsi durante il concerto dedicato a Beethoven dagli studenti del Conservatorio di Pechino.

 

L’indomani, stoicamente, si rialzò per affrontare il vero padrone della Cina, Deng Xiaoping. Un leader carismatico, privo di cariche ufficiali ma autentico numero uno del regime, assiso sul suo trono nella Grande Sala del Popolo, affiancato da ministri e ambasciatori, duro e dalla voce potente, con al fianco una sputacchiera smaltata di cui con voluta noncuranza si serviva a ogni giro di frase.

 

Fu uno scontro epico, ma impari: perché all’ultimatum di Deng la Thatcher poté opporre soltanto il coraggioso attaccamento alle regole del passato coloniale britannico. I trattati, certo, erano dalla sua. Ma come rispondere per le rime a un uomo che guidava un miliardo di uomini, e annunciava di aver già deciso di riprendersi l’intera Hong Kong nel 1997, indipendentemente dalle pretese di Londra, con la sola concessione di “speciali politiche in grado di mantenerne la prosperità”? Era un ultimatum da accettare o rifiutare, ma sempre con le spalle al muro. Dunque, sì o no?

 

Fu in quel momento, per l’ultima volta durante la visita, che si poté ammirare la Signora in armi. Contro qualsiasi logica politica e diplomatica, abbassò la celata e decise che le sarebbe stato intollerabile arrendersi al diktat di un dittatore comunista. Lei rappresentava il vero Impero, e lo fece con una durezza che non si era mai vista dai tempi di Churchill. Se fosse stata sconfitta, pensò, avrebbe denunciato al mondo la tracotanza cinese.

 

[**Video_box_2**]Usò tutto quello che poteva: i tre trattati esistenti secondo la legge internazionale, due dei quali erano legali cessioni al Regno Unito; gli obblighi che ne conseguivano per Pechino; l’impossibilità di risolvere tutto con la forza; e infine estrasse dalla manica la sua carta: chiese di prolungare la scadenza temporale dei trattati esistenti, in modo che si procedesse solo in accordo con Londra. Infine domandò, facendo sobbalzare Deng: “La promessa di mantenere stabilità e prosperità a Hong Kong su che cosa si basa? Come è stata enunciata è inaccettabile, mancano le prove!”. Perciò proponeva di confermare il “British rule” anche oltre il 1997, in cambio della formale sovranità cinese sulla città.

 

Persino per un uomo navigatissimo come Deng, questo era troppo. Nessuno, dai tempi della normalizzazione dei rapporti sino-britannici nel ’72, aveva mai direttamente respinto le pretese di Pechino su Hong Kong. E ora, questa strega in abito da vecchia signora pretendeva di girare all’indietro le lancette dell’orologio, parlava la lingua dell’imperialismo ottocentesco, difendeva le vestigia della Guerra dell’oppio, rinfacciava alla Cina la sua passata debolezza e umiliazione. Si alzò dal trono, in preda all’ira, e sibilò che per la sua ostinazione la Thatcher avrebbe dovuto essere “bombardata” (questa espressione venne doverosamente cassata nelle cronache ufficiali). Quando riuscì a recuperare un minimo di compostezza, urlò che se avesse concesso il “British rule” oltre il 1997 si sarebbe messo sullo stesso piano degli antichi traditori della dinastia Qing. Che i vecchi trattati erano dall’inizio illegali e nulli. Che non poteva esistere amministrazione senza sovranità. Che la bandiera britannica doveva andarsene da là. E con essa il governatore inglese. E tutto entro due anni. Due anni! Altrimenti la Cina avrebbe provveduto unilateralmente. E basta così. L’incontro era finito.

 

Lo fu anche la buona battaglia della Lady di ferro. Le rimase soltanto la forza di tenere una conferenza stampa, dove ripeté un’ultima volta le tesi che avevano mandato Deng su tutte le furie. Ma mentre parlava la voce le si abbassò a un sussurro roco, infine si ruppe del tutto. Uscendo dal palazzo per raggiungere la piazza Tiananmen, inciampò e cadde davanti alle telecamere in attesa. L’immagine che dominò i telegiornali di Hong Kong, la sera, fu quella di un primo ministro britannico, venuto a Pechino per negoziare il futuro della città, in ginocchio davanti al mausoleo di Mao Zedong.

 

E da quel momento ritirata fu. Al punto che al banchetto di congedo, poche ore più tardi, si presentò soltanto il primo ministro Zhao: tutti gli altri preferirono ostentatamente il ricevimento indetto, a due passi, per Kim Il-sung. Quella stessa notte Lady Thatcher, ormai ombra di se stessa, prese l’aereo del ritorno. E alla scadenza dei due anni, come intimato da Pechino, il Regno Unito firmò la fine del “British rule” su Hong Kong.

 

In seguito la Lady, un po’ meno di ferro, sarebbe tornata un paio di volte sull’argomento. Deng, al di là dei discorsi ufficiali, le aveva fatto capire chiaramente che di democrazia, dopo il 1997, non si sarebbe mai potuto parlare a Hong Kong. Ma se lei si sentiva triste e preoccupata per il futuro dell’ex colonia, non lo era al punto da ammettere il suo fatale errore.

 

Il fatto è che aveva combattuto per il passato, l’onore dell’Impero, non per la democrazia a Hong Kong: la Basic Law cui oggi i manifestanti si appellano, fragile frutto di quella battaglia dell’82, è poco più di un giocattolo nelle mani di Pechino. E soprattutto, la sua ideologica convinzione che la libertà di mercato avrebbe aperto inevitabilmente la strada a quella politica, si è rivelata utopia. Troppe sono le armi in mano a un regime potente: minacce, uso della forza, quinte colonne, impiego di agenti coperti, richiamo in servizio dei vecchi comunisti, impiego della criminalità mafiosa. Tutto viene buono (come ha dimostrato la Russia di Putin in Crimea e Ucraina orientale) per dividere e ridurre a miti consigli chi si oppone. Soltanto gettando in faccia a Pechino le libertà individuali, la legalità e il diritto all’autodeterminazione, appellandosi ai tribunali internazionali e risvegliando le coscienze democratiche dell’occidente, la sfida forse non sarebbe stata persa in partenza. Il contagio democratico, da Solidarnosc in poi, è l’unico incubo da cui un regime totalitario desidera risvegliarsi al più presto. Il resto, e su questo la Thatcher sarebbe stata d’accordo, richiede di solito il prezzo di lacrime e sangue.