Le banche, le fusioni e qualche paletto. Parla Rainer Masera

Mariarosaria Marchesano

Evitare che un’aggregazione sana diventi poi un oligopolio. Come si fa? Risponde l'economista, ex ministro del Bilancio nel governo Dini

Ogni battaglia nel mondo finanziario ha un fischio di inizio e quella delle banche italiane per la conquista del “grande nord” rischia di cominciare con il tentativo di Carlo Cimbri, amministratore delegato del gruppo Unipol, di salire al 9,5 per cento della Banca Popolare di Sondrio (obiettivo centrato in parte poiché attraverso l’operazione di acquisto titoli, coordinata da Equita, Unipol ha portato a casa il 4 per cento rispetto al 6,6 per cento previsto). Una mossa che in questo particolare momento apre un nuovo scenario.

 

Se Bper e Popolare di Sondrio sono destinate a dar vita a un’alleanza ne farà parte anche Banco Bpm?
O quest’ultima è destinata a entrare nell’orbita di Unicredit, magari anche attraverso un’operazione ostile su cui l’ad Andrea Orcel starebbe meditando? E in che modo potrebbe entrare in scena Carige, il cui azionista di maggioranza, il Fitd, sta cercando ufficialmente un compratore? Al di là di quelle che sono le possibili combinazioni, in palio c’è la conquista della leadership del secondo polo bancario del paese e forse la costituzione di un terzo. Quali potranno essere gli effetti di questa concentrazione di banche che, tra l’altro, è solo in parte spontanea?

“Quando mi fa fanno questa domanda mi sento un po’ come il grillo parlante di Pinocchio perché non posso fare a meno di evidenziare i rischi della creazione di una situazione di duopolio o oligopolio bancario, che come diceva il mio maestro Sylos Labini, finirebbe per frenare il progresso tecnico e la crescita”, dice al Foglio l’economista Rainer Masera, con un passato di banchiere ed ex ministro del Bilancio e dei rapporti con l’Unione europea ai tempi del governo Dini, oggi preside dell’Università Marconi. In effetti, su questo tema non si è aperto un gran dibattito, complice anche la grave crisi economica scatenata dal Covid che ha spinto il capo della vigilanza europea, Andrea Enria, a intervenire a più riprese suggerendo le aggregazioni tra banche come soluzione per prevenire il deterioramento del credito e il suo impatto sui bilanci.

“Le unioni tra banche possono essere un modo per creare massa critica e gestire l’aumento dei prestiti in sofferenza, ma nel nostro paese il tasso di consolidamento è già più elevato rispetto alla media europea poiché ha subito un’impennata a partire dal 2015 a causa delle varie operazioni di salvataggio e della concentrazione in due gruppi delle Bcc – riflette Masera – Così un’ulteriore concentrazione del credito nelle mani di pochi soggetti potrebbe avere effetti negativi sulla concorrenza. Diciamo che su questo tema ho più dubbi che certezze. Il primo è come affrontare gli effetti della crisi economica. Quando, per esempio, Enria dice che nel 2022 potrebbero esserci 1400 miliardi di crediti deteriorati, cioè 400 in più rispetto alla grande crisi finanziaria, paventa un rischio concreto che trova, tra l’altro, riscontro per il nostro paese nelle previsioni della Banca d’Italia su 2800 fallimenti di imprese che ci sarebbero nel 2022 ai quali si potrebbero aggiungere altri 3700 casi mancanti del 2020, per effetto delle misure di sostegno pubblico, per un totale di 5500 imprese candidate a uscire dal mercato.

Ma mi domando perché la principale risposta a questa prospettiva debba essere il consolidamento bancario e perché non si prosegua soprattutto sulla strada intrapresa dai governi Conte e Draghi su come favorire la ricapitalizzazione delle imprese, incentivando gli operatori privati e pubblici di private equity e investitori istituzionali a intervenire quando, ovviamente, ci siano le condizioni”. 

 

Per Masera il tema delle aziende “zombie”, sollevato anche da Mario Draghi in sede di G30 quando non era ancora primo ministro, rappresenta il vero cuore della crisi economica che prima o poi ci ritroveremo ad affrontare. “Il secondo dubbio che ho riguarda la struttura del sistema bancario europeo. Quando si dice che ha una redditività  inferiore a quella delle banche americane è vero ma questo non dipende dalla dimensione ma dai modelli di business.

Negli Stati Uniti ci sono 4-5000 banche sotto i 30 miliardi di asset gestiti e funzionano bene. Quando vanno male escono dal mercato cosa che nell’Unione europea non avviene perché tutto è regolato da una normativa che, non prevedendo l’assicurazione unica sui depositi per tutelare i correntisti e i risparmiatori come fa il modello americano, finisce con lo scaricare sulle banche sane il salvataggio degli istituti in difficoltà per evitare pericolose risoluzioni atomistiche. E, in un caso come quello del Montepaschi, mette lo stato nelle condizioni di intervenire a più riprese con fondi pubblici”.

Che cosa dovrebbe fare la vigilanza della Bce per evitare che la crisi economica indebolisca il sistema bancario o che cosa dovrebbe fare il governo con una banca pubblica in difficoltà? “Bisognerebbe domandarsi a che punto ci si deve fermare con il consolidamento e se vogliamo che ogni paese abbia una o due banche dominanti. Questo implicherebbe la rinuncia alla biodiversità che caratterizza il sistema del credito in Italia e accettare un sistema di tipo oligopolistico. Alla fine, la ripresa potrebbe essere meno rapida del previsto e su questi temi mi piacerebbe che si aprisse un confronto più articolato”. Intanto, però, il risiko bancario va avanti e il paradosso è che è cominciato da una banca come la Pop Sondrio che non dovrebbe beneficiare degli stimoli del decreto Sostegni.