Intervista

Cimbri: "Governo, attento al Recovery. Non possiamo diventare la terra dei bonus"

Parla l'amministratatore delegato di Unipol: "Il motore della ripresa è nel lavoro, nella competizione e nel merito non nell'assistenzialismo"

Stefano Cingolani

"Sono stanco di sentirmi umiliato, di dover pietire comprensione per una manciata di finanziamenti da parte di paesi molto più piccoli che non sono, a differenza dell’Italia, fondatori della Ue” 

“Siamo a una svolta decisiva della storia, se sbagliamo imbocchiamo una strada in discesa dalla quale non risaliremo più”. Da qui secondo Carlo Cimbri bisogna partire nel compiere le scelte di fondo per la ripresa del paese. L’amministratore delegato di Unipol, uno dei primi gruppi bancari e assicurativi,  parla al Foglio con passione, con quella che si chiama passione civile: “Occorre un progetto con un obiettivo ambizioso, l’Italia deve diventare protagonista, deve essere la terza gamba di una Unione europea dalla quale non si torna indietro, ma che non può reggersi soltanto sull’asse franco-tedesco. Non possiamo accontentarci di un ruolo di secondo piano. Sono stanco di sentirmi umiliato, di dover pietire comprensione per una manciata di finanziamenti da parte di paesi molto più piccoli che non sono, a differenza dell’Italia, fondatori della Ue”. 

 

Cimbri non si emoziona per il dibattito sul rimbalzo del prodotto lordo. Può darsi che sia maggiore del previsto, “se lo dice il ministro dell’economia avrà tutte le informazioni necessarie, del resto dopo uno choc come quello provocato dalla pandemia e una caduta tanto drammatica dell’economia, è naturale che ci sia una risalita. Il problema vero è che non possiamo tornare alla situazione precedente, anzi dobbiamo cogliere l’occasione per uscire dalla mediocrità nella quale siamo precipitati prima della pandemia”. E’ altrettanto sterile la querelle sul fondo europeo per la ripresa o ancor più sul Mes del quale secondo Cimbri abbiamo bisogno. Discutiamo piuttosto su come impiegare le risorse che l’Italia ha a disposizione. Non si tratta di pubblicare lunghe liste di desideri (sembra che i ministeri abbiano inviato ben 534 proposte per 209 miliardi di euro), bensì di avere una idea del paese attorno alla quale concentrare gli interventi necessari. Questa idea è tornare alla crescita e comporta un cambiamento culturale profondo: “Non possiamo diventare la terra dei bonus, del reddito di sostegno, delle prebende, tutto quello che in questi anni ha avuto un effetto devastante. Dobbiamo sostituire a questa cultura assistenziale la cultura del lavoro, della competizione, del merito. Sta qui il motore per la ripresa”.

 

La Francia ha presentato il suo piano da 100 miliardi, 40 dei quali dai fondi europei. E punta molto su incentivi alle imprese: meno fisco e più capitale. “Una scelta intelligente” secondo Cimbri, tuttavia in Italia "la priorità è costruire reti, ciò vuol dire infrastrutture sia digitali sia fisiche perché abbiamo un gran bisogno di strade, ferrovie, aeroporti, porti. Il sistema portuale è oggi più che mai strategico e qui siamo in ritardo. Prendiamo il caso di Genova: è così mal collegata con il resto d’Europa che grandi imprese esportatrici preferiscono sbarcare in Spagna. Quanto al digitale, occorre portare la fibra ottica in tutte le città. “La rete unica è assolutamente fondamentale”, sostiene Cimbri che ha in mente una Italia in cui i dati possano correre velocemente e liberamente, modificando radicate abitudini, dallo studio al lavoro. Lo smart working è un cambiamento importante, ma come si fa se il wifi non funziona? Lo stesso vale per la scuola. Non si può certo rischiare che la linea cada durante un esame. 

 

La tecnologia è essenziale anche nel riordino della sanità. “C’è sempre più bisogno di un coordinamento nazionale per far fronte alle emergenze e questo si deve basare su una rete vasta ed efficiente e su un ampio parco dati, a partire dalle cartelle cliniche. Si pensi a come la telemedicina può alleggerire la pressione sugli ospedali garantendo l’assistenza ai malati. E’ una questione di sicurezza, anzi, ancor più, una questione di civiltà” che va di pari passo con la scuola, la ricerca e la formazione dove l’Italia è rimasta indietro. Anche qui il principio guida deve essere la cultura della competitività. Il sistema scolastico italiano ha un livello di base buono che va mantenuto.  L’Università, invece, ha bisogno di compiere un salto di qualità per tornare a primeggiare, stringere un rapporto organico con il mondo del lavoro e attrarre giovani talenti da tutto il mondo.

 

“L’intera Italia deve attrarre non solo per le sue bellezze naturali, per la storia, l’arte, la cultura. Queste sono le nostre risorse, il nostro petrolio come si suol dire, ma anche gli idrocarburi non servono a nulla se non si estraggono e non si lavorano. Dunque, bisogna fare un investimento di natura industriale per mettere a frutto i nostri beni. L’Italia deve essere riconosciuta come un paese dove si vive bene non solo perché c’è il sole e il mare, ma perché ha ottime infrastrutture, una scuola eccellente, un sistema sanitario efficiente, perché dà sicurezza e riguarda anche la sicurezza dell’investimento, del fare impresa”. E’ una idea di sviluppo porta con sé anche un diverso approccio all’immigrazione attraverso “una politica attiva. Non ci si può limitare alla emergenza o a controllare gli sbarchi. Paesi come la Germania attraggono ingegneri elettronici, perché in una Europa dove la popolazione si riduce c’è bisogno di aprirsi all’ingresso di forze nuove”. 

 

In questa visione ad ampio raggio, Cimbri insiste su “un cambio di approccio” che riguarda il modo di pensare il paese. Se il bandolo della matassa è la crescita non l’assistenza, anche la politica fiscale dovrà essere calibrata in tal senso e l’amministratore delegato dell’Unipol avanza una proposta: “Si discute di ridurre il cuneo fiscale, ma perché non introdurre un tassazione meno pesante sulla parte variabile della busta paga, secondo il principio che chi più fa più guadagna?” Esattamente l’opposto della politica dei bonus dalla quale deve uscire anche il mondo delle imprese. Prendiamo la ricerca: quella pura è a carico dello stato, ma quella applicata va finanziata dalle aziende e quelle italiane sono indietro rispetto alle concorrenti. “Lo stato può offrire incentivi, non difendere rendite di posizione. Possiamo ridurre le imposte sugli utili, ma solo su quelli che vengono poi investiti”. Anche questo fa parte della cultura del fare, l’impronta ideale del piano per la ripresa. “Non possiamo uscire con una crescita dello zero virgola, gravati da un fardello di debito crescente anche dopo gli aiuti europei. Che cosa lasciamo ai nostri figli? La nostra generazione porta sulle sue spalle una responsabilità davvero immane”.

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