Negozi chiusi per le calli di Venezia (foto LaPresse)

Una buona fase 2 ci potrà essere solo tracciando anche i disoccupati. L'altro lato del Veneto

Maria C. Cipolla

Per restare nella metafora dell'epidemia, abbiamo bisogno di scoprire gli asintomatici del mercato del lavoro

Tracciare i contagi con i tamponi, grazie al laboratorio di quel professore Crisanti diventato qui quasi un eroe, ma anche tracciare la disoccupazione e le nuove povertà, usando i dati più dettagliati in nostro possesso per capire chi sta soffrendo maggiormente dell'impatto della crisi economica. Dopo la strategia sanitiaria su isolamento e tracciamento, dal Veneto sembra arrivare un’altra risposta convincente per far fronte alle conseguenze dell’epidemia di Covid-19 ed è fondata sullo stesso assunto: la trasparenza sull’uso e l’analisi dei dati.

 

 

L’agenzia della regione Veneto Lavoro è stata la prima ad analizzare l’andamento delle comunicazioni obbligatorie delle imprese su attivazioni e cessazioni dei contratti elaborando già tre documenti che mostrano tendenze significative, le prime già usate da Banca d'Italia e Ocse. “A partire dallo scoppio dell’epidemia abbiamo deciso di fare un monitoraggio regolare e un’analisi ogni 15 giorni, perché i dati amministrativi ci permettono di capire fenomeni che altrimenti rimarrebbero in qualche modo nascosti”, dice il direttore Tiziano Barone confermando che per rimanere nella metafora, abbiamo bisogno di scoprire gli asintomatici del mercato del lavoro, quelli che non emergerebbero da altre statistiche. Per esempio il lavoro domestico in crescita o la dimensione della pressione su tutte le forme contrattuali flessibili che non sono protette dalla sospensione dei licenziamenti: durante le otto settimane dall’inizio delle misure restrittive fino al 19 aprile, in Veneto si è registrata una perdita netta di posizioni di lavoro dipendente tra le 48 mila e 50 mila unità (-2,5, -3 per cento), ma mentre i contratti a tempo indeterminato sono stati come congelati, si sono registrati 20 mila contratti a tempo determinato in meno e 7 mila in meno tra apprendisti e intermittenti. Sono aumentati i flussi in uscita verso la disoccupazione, ma soprattutto sono diminuiti i nuovi occupati, che erano ben un terzo dei contratti a termine nel 2019 e il 52 per cento dei contratti a tempo determinato attualmente in vigore scadano a giugno: da qui bisognerà ripartire riflettendo, dice Barone, sull'applicazione del decreto dignità.

 

Le comunicazioni obbligatorie permettono di monitorare giorno per giorno la vita del singolo contratto e quindi gli andamenti degli stock di occupati fondati su variabili come età anagrafica, settore, nazionalità. Al ministero del Lavoro stanno continuando ad elaborarli su base trimestrale, ma è difficile dare una risposta politica e amministrativa in tempi rapidi se in tempi rapidi non riusciamo a raccogliere ed elaborare i dati. Insomma rischia di replicarsi la stessa cecità che ha portato qualche regione ad avanzare a tentoni, solo che a livello economico vuol dire usare in maniera non efficace le poche risorse che ci sono. Al ministero non arrivano dalle regioni dati della stessa qualità, questo perché non c’è lo stesso sistema di gestione e di verifica. Soprattutto in questo momento, per Barone, “la priorità della pubblica amministrazione dovrebbe essere garantire una infrastruttura informativa. Per capire chi è il nostro “paziente”, cioè a chi servono i nostri servizi” – Veneto Lavoro ha 450 dipendenti e dall'agenzia dipendono anche i centri per l'impiego – “serve collaborazione per l’incrocio dei dati, a partire dall'Inps: ad oggi non abbiamo modo per esempio di monitorare i flussi degli occupati che escono dal mercato del lavoro perché diventano pensionati, anche i dati sulle partite Iva sfuggono. Questi flussi “nascosti” fanno sovrastimare i disoccupati e rischiano di non focalizzare i servizi sulle persone che hanno bisogno”.

 

La prossima tappa per l’agenzia veneta è la creazione di quello che Barone definisce un “sistema informativo sociale del lavoro”, una banca dati delle prestazioni sociali collegata semplicemente al codice fiscale, per capire dove vanno e a chi gli aiuti di comuni e regione: “In questo modo potremmo capire se ci sono persone che non raggiungiamo e quelle invece che magari sono raggiunte due volte”. L’obiettivo è incrociare le politiche attive – contratti, formazione, ricollocazione, tirocini – con le misure di sostegno alla povertà. Anche su questo serve un’analisi capillare, che vada oltre gli slogan: “Prenda il reddito di cittadinanza: la verità è che molti che lo percepiscono non devono essere ricollocati, perché hanno magari invalidità personali o famigliari, dei 124 mila che lo ottengono 15 mila hanno bisogno di lavoro e sono persone che provengono da lavori di bassa fascia, agricoli o nell’alimentare o nella logistica, al di là della possibilità di formazione per cui serve tempo, dobbiamo essere realistici sui percorsi, sappiamo che è più facile inserirli in settori simili. Per aiutare le persone dobbiamo conoscere la loro situazione”. Secondo Barone serve anche un cambio di cultura: le imprese per esempio tendono per abitudine a non rivolgersi ai centri per l’impiego. “Anpal servizi così come è serve a poco: dovrebbe reinventarsi e integrare il nostro lavoro, per esempio sostenendo gli sportelli lavoro delle università o monitorando quello che fanno le agenzie e i centri per l'impiego regionale, mettendo le regioni in concorrenza tra loro per migliorare i servizi”. In Veneto indicano una strada, chissà che ne pensa Mimmo Parisi dal Missouri.

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