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Lavorare meglio, tutti

Carlo Amenta e Pietro Navarra

Senza produttività, la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario non si avvera per decreto

Uno spettro si aggira per l’Italia: lo spettro dello stato imprenditore. Dal prezzo imposto delle mascherine e fino alle scelte gestionali strategiche da suggerire alle imprese. Così si ritorna a discutere della possibilità di ridurre l’orario di lavoro, anche a salario invariato, per aumentare il numero degli occupati nel mercato del lavoro. Si tratta del famoso slogan “lavorare meno, lavorare tutti” che si rifà alla teoria economica della “ripartizione del lavoro”, prospettando un aumento del numero di occupati. Questa ipotesi si contrappone a quella della teoria classica che sostiene come una riduzione delle ore lavorate, senza una riduzione equivalente del salario, possa produrre un aumento del costo orario del lavoro e, quindi, una riduzione dell’occupazione.

 

Anche questa idea della diversa ripartizione del lavoro si inserisce nel solco di quelle affermazioni sui problemi economici inerenti al mercato del lavoro che possono sembrare, a prima vista, ragionevoli e convincenti: lavorare meno per lavorare tutti, maggiore immigrazione produce più disoccupazione, il pre-pensionamento dei lavoratori anziani aumenta la partecipazione al mercato del lavoro e favorisce l’ingresso dei giovani. Tuttavia, un più attento esame di ciascuna di queste affermazioni rivela quanto esse possano essere imprecise se non, addirittura, rappresentare l’esatto contrario di ciò che accade nella realtà. La causa di tutto ciò sta nella cosiddetta “fallacia del modello superfisso”: al cambiare di una sola condizione, quella oggetto di riforma, tutte le altre variabili del sistema e i comportamenti degli agenti economici che in esso operano, restano tali e quali, consentendo così la spartizione di una stessa torta in proporzioni diverse, senza che la torta subisca alcuna modifica nella propria dimensione complessiva.

 

Per mestiere siamo abituati a valutare la validità delle scelte di politica economica guardando a quello che ci dicono i dati. Dal dopoguerra a oggi, nei paesi industrializzati, le ore di lavoro annuali per lavoratore sono diminuite e, tuttavia, si può osservare che sono proprio i paesi più ricchi quelli che hanno registrato il calo maggiore. Queste considerazioni suggeriscono che la riduzione dell’orario e, in molti casi, l’aumento della retribuzione oraria, siano determinati dalla maggiore crescita economica, spinta da un aumento di produttività per ora lavorata e che quindi la relazione causale tra ore lavorate e produttività sia inversa rispetto a quella suggerita dall’accattivante slogan: è la maggiore produttività del lavoro a favorire, seppure indirettamente, l’aumento dell’occupazione attraverso l’impatto esercitato dalla maggiore crescita economica sul mercato del lavoro.

 

Ma se è la maggiore crescita ad accompagnarsi a un minore numero di ore lavorate per unità di lavoro, cosa succede nei casi di stagnazione o, peggio ancora, di recessione? In questi casi, non solo il monte-ore di lavoro complessivo nel mercato verosimilmente si riduce, ma le condizioni favorevoli per una riduzione dell’orario di lavoro finanziata da guadagni di produttività verrebbero a mancare. In situazioni di stagnazione e/o recessione, come quelle che secondo tutte le previsioni disponibili ci attendono nei prossimi anni, sembrerebbe improbabile una ripartizione delle minori ore di lavoro complessive disponibili tra chi lavora e chi non lavora e il calo di produttività potrebbe aprire la porta al rischio di eventuali tagli dei salari per recuperare efficienza ed evitare perdite.

 

A supporto di queste considerazioni c’è anche la letteratura empirica fin qui pubblicata sulle principali riviste scientifiche di prestigio internazionale. Gli studi recenti, seppure non molto numerosi, sostengono un effetto nullo della riduzione dell’orario di lavoro sull’occupazione e in alcuni casi rivelano un impatto negativo causato dall’aumento del costo orario del lavoro. A questi risultati giungono Bruno Crépon e Francis Kramarz con uno studio sulle riforme francesi negli anni Ottanta, Mikal Skuterud che analizza il caso del Québec in Canada negli anni 1997-2000, Jennifer Hunt nel suo lavoro sull’esperienza tedesca degli anni Ottanta e Novanta e Rafel Sanchez che esamina gli effetti sulla disoccupazione della riduzione dell’orario di lavoro in Cile nel 2001. L’unico studio parzialmente controcorrente è ad opera di Pedro Rasposo e Jan C. Van Ours sulla riforma portoghese di fine anni Novanta. I due economisti riportano un impatto positivo della riduzione dell’orario di lavoro sui licenziamenti e sulle chiusure aziendali con un effetto finale positivo sull’occupazione.

 

Per quanto accattivante e all’apparenza ragionevole, l’opinione secondo cui una riduzione dell’orario lavorativo rappresenti uno strumento efficace per aumentare l’occupazione si dimostra, alla luce dell’evidenza empirica disponibile, lontana dalla realtà. Perché questo slogan possa avere una base solida avremmo bisogno di vivere in un mondo in cui esiste un numero predeterminato di ore di lavoro che permetta alle imprese di raggiungere un livello di produzione dato e immodificabile, senza considerare neanche le fluttuazioni, spesso repentine e imprevedibili, nella domanda dei consumatori a cui, per la famosa “legge del mercato”, chi produce deve adeguarsi variando il proprio livello di offerta. Purtroppo, però, non viviamo in un mondo simile e, a chi si augura o spera che sia così deterministica e fissa la cornice in cui si muovono lavoratori, imprese e consumatori vale la pena di ricordare un vecchio adagio: attento a ciò che desideri, potrebbe avverarsi.

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