Al via la produzione in Sevel, l’impegno di FCA per la salute e la sicurezza nei luoghi di lavoro (Cecilia Fabiano/ LaPresse)

Molto più che una merce

Michele Faioli

E’ arrivato il momento per legislatore, sindacato e datori di immaginare il nuovo lavoro

“More than just”: questa dovrebbe essere la locuzione da inserire, nel 2020, nel principio tradizionalmente alla base della regolazione internazionale del lavoro: “labor is not a commodity” (il lavoro non è una merce) diventerebbe “labor is more than just a commodity” (il lavoro è molto di più, sopra, oltre il resto). Il lavoro è molto di più di una delle risorse del mercato perché nello svolgimento di un lavoro si trova, da una parte, tutto ciò che attiene alla professionalità, al salario, al talento, alla formazione e, dall’altra, l’esistenza stessa della persona e del relativo nucleo familiare, con inclinazioni e progetti, realizzati e da realizzare.

Ci sono alcuni soggetti istituzionali delle relazioni industriali che potrebbero già oggi, in tempo di pandemia, attuare quel “more than just”: il legislatore e le organizzazioni di rappresentanza (sindacali e datoriali). Cosa deve fare, oggi, un legislatore per un lavoro “more than just”? Deve immaginare il “come” del lavoro che, nella fase di transizione, la fase 2, verrà svolto e deve regolarlo in modo equilibrato. Deve, altresì, fare uno sforzo di immaginazione del lavoro, progettando già il lavoro della fase 3, quella post Covid-19.

 

Si dirà che dell’immaginazione di un legislatore non sappiamo cosa farcene. Non è così. Una regolazione equilibrata del lavoro nasce dal potere dell’immaginazione: le grandi riforme che hanno riguardato il diritto del lavoro e la previdenza sociale nascono da visioni pluriennali, di lungo periodo, progettazione dell’Italia nell’Europa sociale, dalla consapevolezza che il sistema di protezione sociale deve garantire chi c’è oggi, ma anche chi ci sarà domani. Il legislatore del 2020 è ahimè bloccato dall’emergenza, non guarda oltre. Per esemplificare, non prende in considerazione alcuni fatti: è utile certamente avere un protocollo sulla sicurezza sul lavoro (14 marzo 2020 modificato il 24 aprile 2020), ma è del tutto inopportuno politicamente non prendersi la responsabilità di rendere tale protocollo ancor più cogente di quanto lo sia oggi (post 24 aprile 2020), mediante una norma che, incentivandone l’applicazione, permetta una riapertura più logica e meno burocratica. La visione burocratica è questa: da maggio 2020, possono riaprire le imprese che hanno un certo codice Ateco, a prescindere dal fatto che sia effettivamente verificato come e se sia stato introdotto a livello aziendale. La visione logica è, invece, la seguente: se è vero che la transizione durerà alcuni mesi e il virus può tornare ciclicamente, l’impresa può riaprire, a prescindere dal codice Ateco, solo se garantisce l’applicazione del protocollo, con verifiche da parte dell’ispettorato, aventi effetti anche esonerativi della responsabilità datoriale da infortunio, e con un impegno preciso allo stop-and-go, in caso di rischio pandemico. Un esempio ulteriore potrebbe essere quello del lavoro agile: da marzo, settore privato e pubblico sono “invitati” a far svolgere le prestazioni in modalità “ agile”. Un legislatore, dotato di quel potere di immaginazione, inizia a predisporre gli strumenti di incentivazione fiscale per permettere al privato di acquistare la tecnologia che rende effettivamente quel lavoro smart (aprire il proprio computer da casa non è lavoro smart) e predispone un più efficace piano di ammodernamento di quella Pa non ancora smart.

 

Cosa possono fare le organizzazioni di rappresentanza, sindacali e datoriali, per il lavoro “more than just”? Negoziare, a livello nazionale e aziendale. Negoziare i piani di sicurezza e i piani di ri-articolazione dell’orario del lavoro, programmando la vita professionale di chi può e di chi non può tornare nel luogo di lavoro. Negoziare le clausole del lavoro agile per sottrarlo all’eccezionalismo regolatorio. Negoziare significa allenare l’immaginazione: ci è stato insegnato che i grandi protocolli degli anni ’90 nacquero dall’intuizione di alcuni e, poi, conquistarono l’intelligenza di tanti sindacalisti e imprenditori. Si deve, nel 2020, essere più incisivi con il governo nazionale ed europeo. Questo è il momento dei grandi protocolli, quelli che rivoluzionano il modo di lavorare e il modo di proteggere il lavoro. Non è il momento della regoletta che, seppur importanti, resta lì per permettere agli studiosi di scrivere qualche saggio. E’ il momento delle grandi visioni, avendo gli occhi puntati su ciò che può essere migliorato con la contrattazione collettiva, nazionale e decentrata. Il sindacato, nazionale e europeo, sarà chiamato a dare una mano a costruire lo SURE, lo schema di sostegno al reddito finanziato dall’Europa, e definire forme innovative di mobilità interna all’azienda. Il sindacato dovrà puntare tutto o quasi, nella fase di transizione, sulla tecnologia intelligente, anche applicata al corpo della persona, con una richiesta di definizione certa dei limiti e l’esercizio di un negoziato sui limiti. Le organizzazioni datoriali hanno l’occasione per non disperdere il patrimonio costruito negli ultimi anni sulle strategie imprenditoriali concorrenziali a livello globale. Debbono fermare i lupi (le mafie) che intendono distruggere quel patrimonio e la voglia di continuare a essere imprenditori, facendo capire ai propri associati che la liquidità immessa nel nostro sistema deve servire per l’economia reale, non per altro.

 

Per fare tutto ciò serve uno spazio, in una sede permanente, valorizzando ciò che già esiste istituzionalmente per tali fini, in cui si può immaginare, formare, e, successivamente, formalizzare il consenso sui temi fondamentali del lavoro in tempo di pandemia, tra continuità produttiva e sostegno alle imprese, nella competizione globale, tutela del reddito, sostenibilità delle pensioni, Europa sociale, costo del lavoro, sicurezza sul lavoro, rappresentatività e disuguaglianze.

 

Michele Faioli, Università Cattolica e Cnel

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