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Perché vietare le vendite allo scoperto è un errore da non rifare

Marco Pagano*

In ogni recente crisi riemerge puntuale il coro di chi invita il regolamentatore ad attuare interventi che vanno dalla chiusura della Borsa al divieto delle short sales. Speriamo che le autorità di sorveglianza di tutto il mondo ricordino la lezione del 2008

Poche cose sono più prevedibili della richiesta a gran voce di “impedire la speculazione” quando i prezzi vanno in picchiata sui mercati azionari: in questi giorni, così come in ogni recente crisi di Borsa, riemerge puntuale il coro di chi invita il regolamentatore ad attuare interventi che vanno dalla chiusura della Borsa al divieto di vendite allo scoperto (“short sales”), cioè di vendite di titoli di cui non si è ancora provvisti. E in passato, con altrettanta puntualità, le autorità che regolamentano i mercati azionari hanno dato ascolto a queste richieste: vietare le vendite allo scoperto è quasi un riflesso pavloviano dei regolamentatori di fronte a crolli generalizzati dei prezzi delle azioni.

 

Negli ultimi venti anni, purtroppo, le crisi non sono certo mancate, per cui abbiamo avuto modo di osservare questo riflesso pavloviano dei regolamentatori varie volte e in molti paesi. Il 19 settembre 2008, subito dopo che il fallimento Lehman Brothers aveva scosso la fiducia nella solidità delle banche e fatto crollare i prezzi delle loro azioni, la Securities and Exchange Commission (SEC) vietò negli Stati Uniti la vendita allo scoperto delle azioni di banche e società finanziarie. Tale divieto fu rapidamente imitato dalla maggioranza degli altri paesi: alcuni vietarono solo le “naked short sales”, in cui il venditore non prende a prestito le azioni per consegnarle al compratore nel periodo di regolamento; altri vietarono anche le “covered short sales”, in cui il venditore si protegge prendendo a prestito le azioni. Più di recente, nel corso della crisi del debito sovrano del 2011-12, le autorità di regolamentazione della maggior parte dei paesi dell’eurozona hanno reagito nello stesso modo al crollo dei prezzi delle azioni, soprattutto di quelle del settore bancario.

 

Questi frettolosi interventi, pur variando da paese a paese per intensità, ampiezza di applicazione e durata, sono stati invariabilmente presentati come tesi a ripristinare l’ordinato funzionamento dei mercati ed evitare cali ingiustificati dei prezzi delle azioni, e i loro effetti destabilizzanti. Per esempio, nel 2008 la SEC giustificò il proprio intervento con queste parole: “Le incontrollate vendite allo scoperto stanno accentuando i recenti crolli delle quotazioni dei titoli di istituzioni finanziarie, che non riflettono il loro vero valore.” In Gran Bretagna, la Financial Services Authority ha motivato così il divieto di vendite allo scoperto di azioni del settore finanziario introdotto il 18 settembre 2008: “Il brusco declino dei prezzi delle azioni di singole banche avrebbe probabilmente condotto a pressioni sul loro finanziamento, così creando un circolo vizioso”. Similmente, nel 2012 l’autorità di regolamentazione spagnola (CNMV) ha motivato la propria decisione di mantenere il divieto introdotto nel 2011 perché “assolutamente necessario ad assicurare la stabilità del sistema finanziario spagnolo”. Insomma, il riflesso condizionato del regolamentatore poggia su questo ragionamento: in tempi di crisi, i prezzi delle azioni scendono al di sotto del loro “vero valore”, il che può destabilizzare le banche e quindi il sistema finanziario; vietando le vendite allo scoperto, impediamo agli investitori troppo pessimisti di “esprimere le proprie opinioni” sul mercato a proposito del valore delle azioni, e quindi la destabilizzante sottovalutazione che ne seguirebbe.

 

Questo ragionamento, apparentemente sensato, in realtà ha gravi falle, sia a livello logico che sul piano fattuale. In primo luogo, il ragionamento dà per scontato che le autorità di regolamentazione sappiano individuare meglio del mercato quale sia il “vero valore” dei titoli, meglio delle migliaia di investitori che ogni giorno investono enormi risorse per cercare anch’essi di calcolare il vero valore dei titoli, per comprarli se li ritengono sottovalutati e venderli se li ritengono sopravvalutati. Ma se è così, perché le autorità che sorvegliano i mercati non intervengono anche quando i prezzi delle azioni crescono oltre il “vero valore” dei titoli, prima delle crisi di Borsa? Allora, simmetricamente dovremmo vietare anche gli acquisti “eccessivi” nelle fasi di rialzo sostenuto dei titoli!

 

In secondo luogo, l’evidenza empirica che si è accumulata negli anni, soprattutto nell’ultimo ventennio, mostra che il divieto di vendite allo scoperto non è in grado né di sostenere i prezzi di mercato dei titoli, né di rendere più stabili le banche. In uno studio pubblicato con Alessandro Beber sul Journal of Finance nel 2013, abbiamo usato dati giornalieri su 16.491 azioni di 30 paesi tra gennaio 2008 e giugno 2009. I nostri risultati indicano che i divieti non si sono accompagnati a rialzi o minori cali dei prezzi di borsa, tranne che negli Stati Uniti nelle 2 settimane successive all’applicazione del divieto, eccezione probabilmente dovuta al contemporaneo annuncio dei salvataggi bancari da parte del governo statunitense. Negli altri paesi, in cui i divieti non sono stati accompagnati da annunci di salvataggi bancari, oppure hanno colpito anche azioni non bancarie, o addirittura non hanno colpito per nulla le azioni bancarie, il divieto delle vendite allo scoperto non sembra aver sostenuto i prezzi dei titoli finanziari. Il risultato delle stime è che vietare le “naked short sales” non ha avuto effetti significativi sui prezzi delle azioni, e vietare anche le “covered short sales” li hanno addirittura fatti diminuire! Un successivo lavoro svolto con Alessandro Beber, Daniela Fabbri e Saverio Simonelli nel 2018 mostra inoltre che, contrariamente a quanto sperato dalle autorità di regolamentazione, le banche i cui titoli sono stati oggetto di divieto di vendita allo scoperto hanno addirittura mostrato un aumento della probabilità di insolvenza, a raffronto di altre banche caratterizzate da simile rischiosità e grandezza ma esenti da tale divieto.

 

In terzo luogo, l’analisi empirica mostra che i divieti imposti durante la crisi hanno notevoli “effetti collaterali”, in particolare tendono a ridurre considerevolmente la liquidità dei mercati, perché si accompagnano a un aumento del “bid-ask spread”, specie per le società più piccole. E ridurre la liquidità del mercato è particolarmente grave in condizioni di crisi, in cui la liquidità già scarseggia e gli investitori la cercano disperatamente. Inoltre tali divieti riducono in modo sostanziale l’efficienza informativa dei mercati, cioè il processo con cui le nuove informazioni vengono riflesse dai prezzi dei titoli: “imbavagliare i pessimisti” rende tutti meno informati e quindi accresce l’incertezza del mercato!

La conclusione suggerita dall’evidenza empirica è dunque ben riassunta dalle parole pronunciate il 31 dicembre 2008 dall’allora presidente della SEC, Christopher Cox: “Sapendo quello che sappiamo ora, non lo rifaremmo: i costi sembrano superare i benefici”. Speriamo che le autorità di sorveglianza di tutto il mondo ricordino questa lezione ora che si trovano a fronteggiare una nuova crisi finanziaria.

 

*Marco Pagano, Università di Napoli Federico II

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