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Il caso Bpb: un'investment bank barese non ha logica strategica né economica

Mariarosaria Marchesano

Viene il sospetto che in Italia qualcuno abbia nostalgia delle partecipazioni statali e punti a resuscitare esperienze come l’Iri o la Gepi, con l’annesso bagaglio culturale assistenzialista

Milano. Di quel che si vuol fare in futuro della Banca popolare di Bari si sa molto poco. A parte le generiche affermazioni sulla creazione di una “banca d’investimento nel Mezzogiorno” contenute nel decreto del governo di metà dicembre, con il quale si stanziano anche 900 milioni per il salvataggio, è poco chiaro quale sarà la “mission” della nuovo istituto. E’ lecito porsi la domanda in questi termini nel momento in cui il governo dimostra di volere andare oltre il ristoro dei risparmiatori e sbandiera un progetto che fa riferimento a un’architettura finanziaria classica, quella delle investment bank, seppure con i soldi pubblici. Chi per lavoro studia come funziona questo settore, come Stefano Gatti, professore di investment banking all’Università Bocconi, pur premettendo di attendere dettagli per una valutazione più approfondita, non può fare a meno di rilevare quanto suoni come una “contraddizione in termini” la creazione di una banca d’investimento locale. “In un mondo globalizzato le banche d’investimento sono di livello internazionale perché solo così riescono a creare valore, anche sui vari territori, attraverso la propria rete di relazioni e contatti – spiega Gatti –. Funziona così ovunque nel mondo ed è per questo che risulta poco convincente l’idea di un nuovo istituto che nascerebbe con una logica prettamente locale”.

 

Tanto per fare un esempio, nell’attuale contesto globale, anche Mediobanca è considerata una banca d’investimento “domestica”, seppure con capacità manageriali e una vocazione di ampio respiro, poiché da sempre a fare la parte del leone, anche in Italia, sono le banche d’affari americane e anche un po’ quelle francesi. Figurarsi che fatica farebbe ad affermarsi una piccola banca pubblica nel promuovere operazioni di sostegno delle imprese e delle economie locali. Tali operazioni, come dice Gatti, in altri paesi sono affidate a soggetti omologhi alla Cassa depositi e prestiti, ma senza l’ambizione di seguire una logica da investment bank. Dunque, si torna sempre allo stesso punto: viene il sospetto che in Italia qualcuno abbia nostalgia delle partecipazioni statali e punti a resuscitare esperienze come l’Iri o la Gepi, con l’annesso bagaglio culturale assistenzialista. “Magari non è così, ma sarebbe interessante capire cosa intende esattamente il governo quando parla di ‘banca d’investimento’”, dice il docente, secondo il quale, è arrivato il momento di recuperare “una visione strategica nei salvataggi bancari”. Quando un istituto di credito va in crisi, è normale che si lavori alla sua messa in sicurezza, procedendo con iniezioni di capitali, attraverso vari strumenti, con il derisking e il recupero dei requisiti patrimoniali per riportarli in linea con un quadro di regole europeo sempre più severo. “E’ anche normale che si parli soprattutto di numeri e di finanza, ma quando la linea di galleggiamento viene spostata in avanti, bisognerebbe poi dire che cosa si vuol fare di quella banca, quale sarà il suo modello di business, come intende essere remunerativa per i suoi azionisti. Al contrario, quando si parla di fusioni tra banche, non si sottolinea mai abbastanza il rischio di sovrapporre le reti, che tra realtà dello stesso territorio è particolarmente elevato. Peraltro, operazioni di questo tipo rappresentano un fronte di esposizione anche per la politica a causa degli elevati costi sociali che implicano”.

 

Insomma, senza una visione strategica, il cosiddetto “consolidamento” bancario può diventare un boomerang per un governo che dice di avere a cuore lavoro e benessere sociale. L’assenza di un dibattito su questo aspetto si avverte anche per la futura riprivatizzazione di Mps, di cui lo stato possiede il 68 per cento. Si sa tutto o quasi della trattativa che il Mef sta conducendo con la Commissione europea per liberare la banca dalla zavorra dei 10-11 miliardi di crediti in sofferenza, che resta sicuramente un punto cruciale per il suo ritorno sul mercato, ma si parla poco o nulla di come una banca tradizionale come quella senese intenda affrontare, ad esempio, la sfida del fintech e l’agguerrita concorrenza su settori in crescita come banca-assicurazione e risparmio gestito. Anche Moody’s, che nei giorni scorsi ha rivisto al rialzo il rating provocando l’exploit in Borsa del titolo, affronta, seppure indirettamente, il tema. A leggere la nota di accompagnamento al giudizio, c’è un invito esplicito a migliorare la redditività nelle filiali.

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