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La Banca di Bari ci ricorda cosa rischia chi scappa dalla globalizzazione

Le lettere al direttore Claudio Cerasa del 11 gennaio 2020

Al direttore - Ma la presentazione di un referendum è messa stessa un referendum?

Giuseppe De Filippi

 

Al direttore - Condivido le sue osservazioni sulle conseguenze e i rischi della supplenza giudiziaria di una politica che non fa il proprio mestiere. Il caso Ilva è esemplare. Poi però bisogna distinguere. Se una legge è mal redatta, per di più con la pretesa di riformare con decreto (cosa mai accaduta) un settore quale quello delle banche popolari, non si può escludere che qualcuna di esse si rivolga all’autorità giudiziaria, come è accaduto con la Popolare di Bari. In particolare, la disciplina del recesso e del diritto al rimborso dei soci che dissentano dalla trasformazione in spa presta il fianco a forti dubbi e alla constatazione di lacune che possono avere impatti rilevanti sulle risorse da erogare a questi soci. Non a caso si attende quasi da un anno il parere che al riguardo deve rilasciare la Corte di giustizia europea al Consiglio di stato. Insomma, non è il temporeggiamento sulla trasformazione, pur al limite non condivisibile, la causa prima delle gravi difficoltà della “Bari”. Semmai, può avere concorso. Ma le cause sono molte altre, diverse e, in parte, all’esame della magistratura, nonché all’ulteriore disamina dei Commissari dopo la messa in gestione straordinaria della Popolare. Non manca tra queste l’arbitraria decisione della Commissione Ue che a suo tempo ritenne aiuto di stato, e quindi non effettuabile, l’intervento del Fondo interbancario di tutela dei depositi che affiancava la “Bari” nell’acquisizione della Tercas. Una decisione poi bocciata dal Tribunale europeo. In definitiva, pur non essendo, questo, un caso classico di supplenza, tuttavia resta pur sempre la dimostrazione di un compito svolto male dal governo di allora e dal legislatore. Altre popolari, che si trovavano in altre condizioni, non hanno sollevato il problema del recesso, è vero. Ciò non toglie che il problema esista. Nell’istituto pugliese si è trattato del sale sulle numerose ferite.

Angelo De Mattia

Resto dell’idea che considerare la globalizzazione come un’opportunità da cogliere e non un nemico da cui proteggersi sia l’unico modo per le aziende italiane di essere più competitive, più trasparenti, più efficienti. Le aziende destinate ad avere un futuro sono quelle che hanno dimostrato di sapere trasformare le chance offerte dall’apertura dei mercati non in un vincolo soffocante ma in un’occasione di crescita. Nel 2015, dieci banche popolari dovettero fare i conti con una riforma importante invocata da anni anche da Bankitalia. Otto banche si sono trasformate. Una delle due che non l’hanno fatto è Bari: lo avesse fatto i problemi con cui oggi deve fare i conti sarebbero emersi prima e si sarebbero risolti più in fretta.

Al direttore - I vent’anni dalla scomparsa sollecitano una discussione senza ipocrisie sul ruolo di Craxi. All’ottimo scritto di Umberto Ranieri (“Il paradosso di Craxi…”) occorre aggiungere qualche chiosa. L’occasione persa del riformismo che Ranieri colloca come l’errore del 1989, in realtà deve essere retrodatato di dieci anni, come errore non del socialista ma quale responsabilità grave di Berlinguer che rifiutò di percorrere la strada del riformismo occidentale sostenuto dal suo mentore ideologico Rodano e incitato malamente dal segretario Tatò che condannava l’“avventuriero” Craxi la cui politica “della cosiddetta area socialista e socialdemocratica è fatta di ceti medi parassitari, di industriali scrocconi, di intellettuali un po’ cialtroni del gruppo di Mondoperaio…”. Il nuovo segretario Psi del Midas tentò per alcuni anni di sospingere il Pci di Berlinguer sulla strada dell’alternativa riformista: due eventi significativi avevano divaricato non solo teoricamente ma ancor più politicamente il riformismo socialista dal cattocomunismo di Berlinguer. Il referendum sul divorzio del ’74 che aveva rivelato un’Italia diversa da quella che immaginavano Berlinguer e Fanfani con un nutrito schieramento di cattolici anti Dc; e l’affaire Moro che era stato affrontato da Pci e Psi con due concezioni del tutto antitetiche di quello che significava uno stato autorevole ma umanitario. I trend elettorali rivelavano l’emergenza di una classe media urbana disponibili ad abbandonare le vecchie fedeltà comunista e cattolica (l’exploit Radicale nelle grandi città nel 1979) per percorrere vie “europee”. Per questo fino al 1982 Craxi guardò per imitarlo al successo del democratico-radicalsocialista Mitterrand che aveva travolto il Pcf. Dopo anni di minorità socialista riteneva di potere essere il federatore di quell’area socialista-socialdemocratica-radicale-liberale in nome della quale prospettò a Berlinguer all’inizio degli anni 80 l’ipotesi di un suo governo appoggiato dall’esterno dal Pci. Ma Berlinguer seguitava a guardare, nonostante tutto, alla Dc di Andreotti per un compromesso anche dopo la fine della solidarietà nazionale, e a considerare i socialisti “avventuristi” come un “salame da affettare pezzo a pezzo” (l’espressione è di Craxi) come era accaduto per trent’anni dal 1948. Craxi era odiato (questa la parola giusta anche se inopportuna da ricordare) perché non si faceva “affettare” e pretendeva di fare una “sua” politica non da “compagno di strada”. La vicenda craxiana si può leggere anche nello scritto di Ranieri, ma io posso ricordarla con maggiore nettezza di linguaggio perché ho vissuto quella stagione non da comunista ma da partigiano del riformismo radicale vicino al progetto socialista mitterrandiano. Fu l’atteggiamento del Pci a precipitare Craxi in quella strategia del potere che dal 1983 prese il none di Caf.

Un saluto.

Massimo Teodori

 

Al direttore - Un anno fa avevo lanciato l’idea di misure di incentivo fiscale per quelle imprese che riducessero l’orario di lavoro per i propri dipendenti, a parità di compenso mensile. Più di recente, prima come emendamento alla legge di Bilancio e poi come proposta di legge ad hoc, ho proposto uno sconto Irap per le aziende che volontariamente riorganizzassero su 4 giorni lavorativi i turni dei propri dipendenti. Essendo un imprenditore manifatturiero, non mi sono innamorato di tesi anticapitalistiche: semplicemente sono sempre più consapevole che il modello di produzione e di integrazione del lavoro umano con le nuove tecnologie premia quelle imprese che non sprecano inutilmente ore di lavoro, ma che riorganizzano orari e attività in modo da aumentare la produttività della singola ora lavorativa. Non siamo più all’epoca di Ford, per cui ogni minuto di lavoro era pari a tot bulloni avvitati. Il dibattito esploso dopo le dichiarazioni, travisate e poi chiarite, della premier finlandese consente di riaprire la questione anche in Italia, un paese che ha un numero elevato di ore lavorate e una produttività invece deludente. Le ragioni sono tante, anche esterne alle aziende (dalla burocrazia alla giustizia, passando per le infrastrutture), ma c’è senza dubbio uno sforzo che noi imprenditori possiamo fare perché i lavoratori producano quanto e più di oggi lavorando meno ore o meno giorni. Ne beneficerebbe la loro vita, quella della loro famiglia (magari anche con un figlio in più) e l’intero sistema del tempo libero e dei consumi. Non occorrono imposizioni di legge ma quelli che gli economisti chiamano dei “nudge”, degli stimoli o dei pungoli: lo stato ti fa pagare un po’ meno tasse se consenti all’operaio di lavorare per quattro giorni e di godere di un weekend lungo da venerdì a domenica. La produttività individuale ne avrebbe una spinta positiva, perché il lavoratore sarebbe più motivato dalla settimana corta e meno fiaccato dalla routine dei cinque giorni. Gli esperimenti di quelle imprese che in giro per il mondo lo hanno fatto sono estremamente incoraggianti. Pensiamoci, scopriremmo che così aumenterebbero i posti di lavoro complessivi.

Gianfranco Librandi, deputato di Italia Viva

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