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Il primato del politico

Roberto Gualtieri

Globalizzazione, Europa e riforme possibili. Il pensiero del nuovo ministro dell’Economia spiegato con un saggio sul riformismo (e il socialismo) scritto da lui

Pubblichiamo un estratto della relazione sul profilo culturale e programmatico del Pd pronunciata a Orvieto il 6 ottobre 2006 dal professor Roberto Gualtieri, nuovo ministro dell’Economia.

 


 

Ragionare sull’identità del Partito democratico significa individuare i compiti che deve affrontare, la funzione che è chiamato ad assolvere. La sfida entro cui collocare il nostro ragionamento è il rinnovamento della democrazia di fronte ai colossali mutamenti che si sono innescati a partire dagli anni settanta e che sono comunemente definiti con il concetto di globalizzazione: la liberalizzazione dei movimenti di capitale, che ne ha indotto l’incremento esponenziale al di fuori del controllo degli stati; l’ascesa di nuovi protagonisti economici e politici soprattutto in Asia e l’affermazione di una nuova divisione internazionale del lavoro accompagnata da un poderoso ciclo di innovazione tecnologica; la crescente terziarizzazione delle società occidentali e l’emergere di soggettività e bisogni inediti; l’irrompere sulla scena mondiale di popoli e culture differenti. Tali mutamenti hanno minato i fondamenti della democrazia a base statal-nazionale. Da un lato infatti le basi sociali dei soggetti che ne avevano promosso lo sviluppo sono state erose; dall’altra sono divenuti in parte inefficaci gli strumenti – l’economia mista, il keynesismo nazionale – con cui quei soggetti avevano saputo creare un circolo virtuoso tra sviluppo ed equità, realizzando una straordinaria “civilizzazione” della società europea. Infine, la globalizzazione ha travolto il vecchio sistema internazionale bipolare entro cui la democrazia aveva potuto prosperare in Europa occidentale, senza che sulle macerie del muro di Berlino nascesse un nuovo ordine mondiale capace di assicurare pace, sicurezza e sviluppo sostenibile. Di fronte a mutamenti di questa portata, tutte le culture politiche del novecento sono impegnate in un profondo ripensamento. I protagonisti della democrazia sociale postbellica – i cattolici democratici, i socialisti, i liberaldemocratici – si misurano non da oggi con le sfide inedite della democrazia contemporanea per delineare una nuova configurazione del riformismo, ridefinendone obiettivi e strumenti. E’ un processo che in Europa investe la natura e il profilo stesso delle grandi famiglie politiche, e i caratteri di un’articolazione dei diversi sistemi politici nazionali che non appare ancora in grado di offrire una solida guida alla società europea ed alla sua integrazione politica. In Italia questo compito è particolarmente urgente, perché le modalità drammatiche con cui è precipitata la crisi del vecchio sistema politico hanno reso più acuto che altrove il problema della debolezza della democrazia e dei suoi soggetti. La sfida che abbiamo davanti è ben più impegnativa che rimediare ai danni prodotti nell’ultimo quinquennio. (…)

 

Sono in crisi le due principali culture politiche che, variamente combinate tra loro, hanno dominato la prima fase dell’epoca della globalizzazione: l’idea di una fine della storia che imporrebbe di adeguarsi agli imperativi di un mercato globale considerato di per sé in grado di produrre benessere e pace; e l’idea che i processi mondiali possano essere decifrati con gli strumenti della geopolitica o interpretati come “scontro di civiltà”, e che implica un ritorno alla logica amico emico, al ripiegamento identitario, al protezionismo, alla guerra. Tali visioni, e le politiche che da esse hanno tratto ispirazione, si sono dimostrate drammaticamente inadeguate a comprendere il mondo di oggi, a governare i suoi conflitti, al punto da imporre a tutti, ce lo dicono le cronache di questi mesi, un ripensamento e la ricerca di strade nuove per la politica. Sono quindi le grandi cose del mondo e le vicende del nostro paese che ci parlano della necessità e della possibilità di dare vita in Italia a un grande Partito democratico, e che ci impongono di costruire non un nuovo partito ma un partito nuovo, cioè una forza capace di interpretare le novità della nostra epoca e di cogliere le opportunità della fase che si sta aprendo. Questo progetto nasce dall’Ulivo, che fin dal 1995 si è configurato come l’embrione di un possibile nuovo soggetto politico, e che con il successo della lista unitaria e la formazione dei gruppi parlamentari unici ha compiuto già una parte significativa del cammino verso il Partito democratico. Le profonde divisioni sociali (divisione tra classe operaia e ceto medio), culturali (incomunicabilità ideologica tra movimento socialista e cattolicesimo politico) internazionali (guerra fredda) e politiche (presenza di un forte partito comunista con le caratteristiche del Pci) che avevano dato forma al sistema politico della “prima repubblica” e alla divisione dei riformisti sono venute meno. C’è nel paese un’unità profonda tra gli elettori dell’Ulivo che costituisce la potenziale base per un nuovo partito, mentre l’esperienza delle primarie ha dimostrato l’esistenza di una forte spinta alla partecipazione che va oltre il perimetro dei partiti esistenti. Perché questo processo giunga a compimento occorre però affrontare un nodo ineludibile, la cui importanza è persino superiore a quella delle regole e delle tappe del processo unitario: il nodo della cultura politica. Se vorrà essere un organismo vitale e duraturo, il Partito democratico dovrà infatti affondare le sue radici in una nuova cultura politica, ossia definire una propria visione del paese e dei processi internazionali, affrontare la questione dei valori e dei principi, delineare un “programma fondamentale”. In questa ricerca non siamo soli e non partiamo da zero. Lo sforzo di revisione e di elaborazione che vede impegnate, non solo in Europa, le principali forze socialiste e democratiche, fa intravedere i contorni di un nuovo grande campo riformista che si caratterizza per l’incontro tra culture politiche differenti. Il terreno di tale incontro è una percezione della globalizzazione che si fonda sul riconoscimento del destino comune del genere umano nell’epoca dell’interdipendenza e che per questo è profondamente diversa da quella che caratterizza le forze conservatrici. E’ una visione che riconosce e valorizza le straordinarie opportunità che derivano dalla capacità della mondializzazione del capitalismo di favorire lo sviluppo delle forze produttive. E’ inoltre pienamente consapevole sia dell’inadeguatezza di molti dei tradizionali strumenti di regolazione dell’economia su base nazionale, sia del ruolo importante che, nell’epoca dell’economia della conoscenza, figure sociali nuove legate al mondo dell’impresa, delle professioni, dei servizi, della comunicazione, particolarmente sensibili ai temi delle libertà economiche individuali, devono avere in un blocco sociale democratico e riformista. Allo stesso tempo, il riformismo considera l’assetto del sistema politico, economico e finanziario internazionale che ha preso forma a partire dagli anni novanta non solo ingiusto, perché portatore di grandi asimmetrie nella distribuzione della ricchezza, ma anche instabile, poco efficiente e poco sicuro. Instabile perché fondato su crescenti pericolosi squilibri finanziari, come dimostra il livello del deficit corrente degli Stati Uniti e la corrispondente sottovalutazione delle monete dei paesi emergenti. Poco efficiente, perché una distribuzione della ricchezza che penalizza il lavoro rischia di comprimere la domanda globale, perché nell’economia della conoscenza la mancanza di coesione e di investimenti sul capitale umano e sociale ostacola lo sviluppo, e perché la ricerca del profitto immediato da parte degli intermediatori finanziari globali molto spesso scoraggia gli investimenti produttivi a lungo termine. Infine insicuro, perché l’unilateralismo e l’idea della guerra come strumento per l’“esportazione” della democrazia si sono dimostrati inadeguati a risolvere i conflitti e ad affrontare la minaccia del terrorismo, e perché l’assenza di un governo democratico dello sviluppo accentua le minacce per l’ecosistema. La globalizzazione non è dunque politicamente neutra e le sue forme, profondamente segnate fino ad oggi dalla rivoluzione neoconservatrice e dall’unilateralismo, sono ora finalmente in discussione. Essa non pone insomma solo problemi di competitività a cui adeguarsi, ma costituisce anche un terreno di lotta politica e di iniziativa per affermare un diverso modello di regolazione dell’economia e delle relazioni internazionali. (…) Questa idea della democrazia presuppone un robusto fondamento etico all’azione politica. Ciò rimanda ai grandi principi, elaborati dal liberalismo, dal socialismo e dal pensiero cristiano, che sono alla base del processo di integrazione e del modello sociale europeo: la libertà, la giustizia e la solidarietà, che vengono declinati e combinati in forme in parte nuove. La libertà da interventi e costrizioni esterne, ma anche intesa come l’effettiva capacità delle donne e degli uomini di costruire la propria esistenza; la giustizia come eguaglianza di opportunità e diritti della persona; la solidarietà come impegno per il bene comune, divengono infatti, ancor più che in passato, principi reciprocamente necessari. (…) Questa visione della globalizzazione e i principi regolativi che da essa originano stanno generando le idee fondamentali di un nuovo riformismo. In Europa gli esiti di tale esperienza coincidono in gran parte con gli obiettivi e i percorsi stessi del processo di integrazione. In virtù dei suoi valori fondativi, del suo modello sociale, del metodo e delle istituzioni su cui si basa, l’Unione europea prefigura infatti un’inedita “potenza civile”, che può essere protagonista dell’edificazione di un nuovo sistema mondiale multilaterale e democratico, promuovendo una visione più umana e più efficiente del “governo del mondo”. Per far ciò, l’Europa deve però trovare la strada per un governo unitario del proprio sviluppo e della propria azione internazionale: deve raggiungere una dimensione compiutamente politica. Ciò presuppone un rinnovamento della politica europea e dei suoi soggetti, che punti a colmare il vero e proprio “vuoto di egemonia” che caratterizza la scena politica continentale, e che sfida i riformismi europei a ripensare se stessi e ad allargare i propri confini. Il nuovo riformismo europeo si definisce perciò per l’impegno a rilanciare il ruolo di attore globale dell’Europa, a promuoverne l’unità politica e ad affermare un modello di società della conoscenza fondato sull’innovazione, sullo sviluppo sostenibile e sulla coesione sociale.

 

(…) Il sistema delle piccole e medie imprese è stato a lungo ritenuto in grado di assumere il ruolo di “motore” della crescita del paese, ma di fronte alla sfida delle nuove economie emergenti risulta ormai chiaro che esso, pur costituendo una risorsa straordinaria, non è sufficiente ad arrestare il declino dell’Italia. Quella che è in atto quindi è una vera e propria crisi del capitalismo italiano e del modello di sviluppo del paese, ma essa non è una crisi solo economica, bensì anche politica, culturale e morale: è una crisi di classi dirigenti. Essa affonda le sue radici nel venir meno delle condizioni interne e internazionali del compromesso economico, territoriale, politico e istituzionale che aveva garantito per decenni il progresso del paese e la sua europeizzazione. Di fronte a ciò, le culture politiche italiane non hanno saputo rinnovarsi per tempo e guidare il processo di modernizzazione che la “repubblica dei partiti” aveva saputo promuovere. Questa sconfitta della politica ha reso più traumatico che nel resto d’Europa l’impatto della globalizzazione, e ha indebolito la capacità dell’Italia di adattarsi ai mutamenti della competizione internazionale. Ciò a sua volta ha determinato lo smarrimento della capacità del paese di pensare autonomamente se stesso, la propria storia, i propri destini. Dietro l’apparenza di un’acculturazione di massa, è maturata una frattura tra intellettuali e popolo che ha visto il declino delle istituzioni formative e dell’industria culturale, e la trasformazione della cultura in intrattenimento e veicolo passivo della società dei consumi. In questo quadro, il tessuto etico e politico della nazione si è inaridito, fino al punto di mettere in discussione l’unità degli italiani e il rispetto della legalità come principio elementare di convivenza. (…) Porre il problema della nazione italiana su basi nuove significa avere una percezione realistica dei problemi del paese, ma anche delle sue grandi opportunità e responsabilità. Le opportunità che derivano dalle sue straordinarie risorse culturali e ambientali, dal genio del lavoro e dell’impresa italiani, dal ruolo che l’Italia ha di ponte tra l’Europa ed un continente asiatico che, dopo cinque secoli di ripiegamento, torna ad essere un protagonista dell’economia mondiale; le responsabilità che discendono dalla sua peculiare natura di centro mondiale della cristianità. (…) L’interesse europeo e quello italiano in buona misura coincidono, i problemi fondamentali del paese possono essere avviati a soluzione solo se progredisce l’unità politica dell’Europa. D’altronde l’Ulivo nasce non a caso dall’unione dei diversi filoni dell’europeismo italiano, e ha fatto della politica europea il terreno qualificante della propria azione politica. La nuova politica estera italiana è caratterizzata infatti dall’impegno per la definizione di un interesse comune europeo e per l’affermazione dell’Europa sui grandi temi dell’agenda internazionale, a cominciare dal problema mediorientale. L’obiettivo è il rilancio del multilateralismo e di un “governo sussidiario dell’ordine mondiale” che dia efficacia e legittimità all’azione della comunità internazionale valorizzando la dimensione regionale nel quadro di una rinnovata centralità delle Nazioni Unite. (…) L’avanzamento del processo di integrazione e la definizione di una politica economica europea comune costituiscono le condizioni per affrontare i problemi della competitività nella prospettiva dello sviluppo. La disciplina dell’unione economica e monetaria è essenziale non solo per evitare una drammatica crisi finanziaria ma anche per superare il “circolo vizioso della rendita” affermatosi negli anni ottanta e liberare risorse per gli investimenti. Allo stesso tempo, la decisa politica riformatrice che deve affiancarsi all’azione di risanamento può avere efficacia solo se saprà affrontare la specificità dei problemi dell’economia italiana in modo coerente con gli indirizzi di Lisbona, nel quadro di un più efficace coordinamento europeo delle politiche economiche e della realizzazione di grandi programmi europei di investimento nella ricerca, nell’innovazione, nel potenziamento delle imprese strategiche e nelle infrastrutture. L’azione del governo si colloca pienamente in questo orizzonte. Preso atto dei limiti della retorica del “piccolo è bello” e della “centralità dell’impresa”, che aveva condizionato il discorso pubblico anche a sinistra negli anni novanta, l’obiettivo principale è infatti quello di far crescere le imprese, spostarle verso l’economia dell’informazione ed affermare la logica dell’investimento industriale rispetto a quello finanziario approfittando delle opportunità di internazionalizzazione finanziaria create dall’Uem e della nascita di grandi attori bancari di dimensioni finalmente europee. Ossia di promuovere una riforma del capitalismo italiano ed una sua europeizzazione da un lato con l’introduzione di una maggiore “concorrenza regolata” nei mercati e spostando risorse dalla rendita al lavoro e agli investimenti, e dall’altro attraverso una nuova politica industriale fondata sulla riqualificazione dell’intervento pubblico verso le grandi reti infrastrutturali ed i settori emergenti. Un analogo mutamento di paradigma, a un tempo più “nazionale” e più europeo, riguarda il problema del Mezzogiorno, che dopo una lunga eclissi della nozione stessa di “questione meridionale” viene finalmente concepito come una grande macroregione che ha bisogno di più mercato, sicurezza e regole certe, e di un impegno politico ed economico straordinario per farne la piattaforma logistica e commerciale dell’Europa nel Mediterraneo. Anche la realizzazione di un nuovo patto sociale più equo socialmente e generazionalmente e più capace di promuovere lo sviluppo passa per una maggiore europeizzazione del welfare, che disegni una nuova idea della cittadinanza e di accompagnamento della vita attiva capace di conciliare flessibilità e sicurezza, di coinvolgere di più le comunità locali e la società civile, di puntare all’inclusione dei lavoratori immigrati nel circuito della rappresentanza e dei diritti politici e sociali. Tali obiettivi si collocano in uno scenario europeo ma presuppongono la ricostruzione di una statualità condivisa. (…) Il Partito democratico potrà così essere legittimamente concepito come il luogo in cui perseguire l’ideale socialista del progresso e della liberazione dell’uomo, insieme a quello di un nuovo umanesimo e di una democrazia dei cristiani. Ma allo stesso tempo, attraverso il dialogo ognuno potrà scoprire nell’altro risorse inattese, che si potrebbero rivelare indispensabili per affrontare il compito di costruire la democrazia nell’epoca dell’interdipendenza e della globalizzazione. La concezione cristiana della persona, della sussidiarietà, della responsabilità sociale e della tutela della vita non rappresenta forse un prezioso punto di riferimento anche per una sinistra che di fronte allo sviluppo delle soggettività è chiamata a superare ogni scoria di economicismo? (…)

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