Il vicepremier Matteo Salvini al summit di Helsinki (foto LaPresse)

Perché la “flat tax sugli incrementi” è sbagliata e distorsiva

Sandro Brusco

Perdita di gettito, iniquità e trucchi contabili senza effetti sulla crescita. Meglio una riduzione delle aliquote

L’estate 2019 sembra segnalarsi per i tormentoni fiscali, anziché per quelli musicali. Così come bisogna attendere l’autunno per capire quale tormentone musicale ha prevalso, solo la legge di bilancio dirà quale delle multiple sciocchezze ascoltate in questi giorni troverà effettivamente uno sbocco legislativo e farà danni. Nel frattempo è utile tenere allenata la mente ed esaminare le bislacche proposte che prendono corpo. Oggi ci occupiamo della “flat tax al 15 per cento sui redditi incrementali” di cui ha parlato Matteo Salvini nei giorni scorsi e di cui Guido Crosetto di Fratelli d’Italia ha orgogliosamente rivendicato la primogenitura. Non sono stati forniti molti dettagli, ma l’idea è che sul reddito dell’anno 2020 si applicherà l’Irpef ordinaria vigente fino al reddito guadagnato nel 2019 mentre i guadagni extra verranno tassati al 15 per cento.

 

L’idea di base è quella che l’abbassamento delle aliquote sui redditi incrementali aiuterebbe a stimolare l’offerta di lavoro: se guadagnando 100 euro in più, pago solo 15 euro di Irpef, anziché 38, mi dovrebbe venire più voglia di provare a guadagnare cento euro in più. La ragione per farlo riducendo l’aliquota solo sugli incrementi di reddito anziché perseguire la via maestra di una riduzione generalizzata delle aliquote è semplice e banale: non c’è volontà di recuperare spazio per una riduzione delle imposte mediante riduzione della spesa, per cui si cerca di limitare la perdita di gettito. Questo ci dovrebbe anzitutto ricordare che in ogni caso gli effetti sull’economia di una simile manovra sarebbero ridotti e probabilmente comparabili a quelli ottenuti da una (molto più sensata) piccola limatura delle aliquote, a parità di perdita di gettito.

 

Ci sono una serie di considerazioni etiche e legali contro tale proposta. Violerebbe in modo palese il principio dell’equità orizzontale (quella secondo cui chi percepisce lo stesso reddito dovrebbe pagare la stessa imposta sul reddito) e in varie occasioni può portare a tasse più alte su chi guadagna meno. Sono considerazioni importanti e probabilmente sufficienti a bocciare la proposta, ma vorremmo lasciarle a gente più esperta. Questo articolo ha un obiettivo molto più limitato: valutare gli effetti che tale proposta può avere sugli incentivi alla produzione di reddito e sul gettito fiscale. Ipotizzeremo che la modifica sia permanente. Di una modifica temporanea, diciamo per un solo anno, non vale nemmeno la pena parlare: sarebbe equivalente al solito bonus distribuito a casaccio, nella speranza di acchiappare voti.

 

Cominciamo dagli effetti sul gettito fiscale. Per ragionare su questa variabile è utile chiedersi: se ciascuno, nel 2020, guadagnasse esattamente quanto nel 2019, cosa succederebbe al gettito fiscale? La risposta intuitiva è: niente. Nessuno avrebbe un aumento di reddito e quindi nessuno otterrebbe l’aliquota agevolata. Tutti pagherebbero esattamente lo stesso dell’anno precedente.

 

Ci sono almeno due ragioni per cui, nella pratica, questa risposta intuitiva non è corretta. La prima è che non tiene conto dell’inflazione. Anche se tutti stanno guadagnando esattamente come l’anno prima in termini reali, i redditi nominali cresceranno per una percentuale pari al tasso d’inflazione. Tali incrementi nominali verranno tassati al 15 per cento, pur non corrispondendo ad alcun aumento di attività economica. Questo porta automaticamente a una perdita secca di gettito, senza indurre alcun beneficio di crescita. 

 

Un altro grosso problema è dato dalla possibilità di mettere in atto strategie di “creatività contabile”, slittando il reddito da un anno all’altro. Considerate una situazione in cui, in una piccola azienda in cui esiste un rapporto di fiducia tra titolare e lavoratori (sì, ce ne sono), bisogna decidere quando pagare gli straordinari fatti nella seconda parte del 2019, o quando pagare una gratifica o un bonus. Con il regime attuale è (più o meno) indifferente farlo a dicembre 2019 o a gennaio 2020. Con il nuovo regime è decisamente più conveniente farlo nel gennaio 2020: abbassando il reddito del 2019, si otterrebbe un abbassamento al 15 per cento dell’aliquota pagata sulle somme extra. Questo è solo un esempio, ma se ne possono fare molti altri: professionisti che ritardano le fatturazioni, imprese familiari che decidono di ripartire il reddito tra familiari in modo da massimizzare il vantaggio fiscale (per esempio concentrando su un’unica persona il reddito), etc. etc. Queste perdite di gettito sono abbastanza difficili da prevedere e la probabilità di manovre aggiuntive per metter pezze a inaspettati cali di gettito aumenterebbe.

 

Per quanto riguarda gli effetti sulla crescita, la conseguenza più importante sarebbe l’aumento della volatilità del reddito. In altre parole, le fasi recessive verrebbero rese più severe e le fasi espansive più sostenute. Questo avverrebbe per due motivi.

 

In primo luogo, il nuovo sistema porterebbe automaticamente a una politica di bilancio prociclica. Nelle fasi espansive una maggior quota di reddito verrebbe tassata al 15 per cento, fornendo un addizionale stimolo fiscale. Il contrario occorrerebbe nelle fasi recessive: l’aliquota fiscale media finirebbe per aumentare, rendendo la recessione più pesante.

 

In secondo luogo, ci sarebbero effetti reali (e non solamente dovuti alla creatività contabile) sugli incentivi. L’anno di riferimento rispetto al quale si calcolano gli incrementi dovrebbe essere aggiornato periodicamente. Se non venisse aggiornato infatti l’effetto dell’inflazione sui redditi nominale porterebbe alla convergenza verso una flat tax del 15 per cento, per la quale però non ci sono i soldi. Immaginiamo, per esempio, che la “flat tax sugli incrementi” venga introdotta nel 2019 e che l’anno base venga rivisto ogni tre anni. Cosa succederebbe nel 2022? E’ abbastanza ovvio che ci sarebbe un forte incentivo a ridurre il reddito in quell’anno, non solo per manovre contabili ma anche semplicemente lavorando e producendo meno, per poi godere di una minore tassazione sui redditi futuri. Si introdurrebbe in tal modo un potente e dannoso aumento nella volatilità del reddito.

 

In conclusione: un’altra proposta delirante, drammaticamente ingiusta ed esposta a manipolazioni contabili, generatrice di instabilità nell’economia. Vediamo la prossima.