Con la foto di una grande yacht e il famoso slogan "Anche i ricchi piangano", Rifondazione comunista sollecitava nel 2006 una stretta fiscale sui grandi patrimoni (Foto LaPresse)

I venti della patrimoniale

Stefano Cingolani

Controindicazioni di un’imposta molto richiesta, ma che nasconde un sovranismo vicino all’autarchia

Ci si arriverà, di riffa o di raffa, di straforo o apertamente. Altro che flat tax, altro che cuneo fiscale, altro che salario minimo, è sempre più chiaro che per far fronte alla Finanziaria monstre del prossimo autunno (si parte da 35 miliardi di euro) una imposta patrimoniale s’abbatterà sulla ricchezza degli italiani che è mal distribuita (anche se meglio che in Gran Bretagna e Francia), ma ingente, nonostante la crisi: un decimo degli italiani possiede oltre il 40 per cento dei patrimoni immobiliari e mobiliari, che ammontano a 10 mila miliardi di euro: 8,5 volte volte il reddito disponibile, più della Germania, come mostra l’ultima indagine congiunta Istat e Banca d’Italia. È il più grande segreto dei segreti di Pulcinella:

">la patrimoniale la chiede il Fondo monetario internazionale, la raccomanda l’Ocse, piace alla Bundesbank, la vorrebbe Maurizio Landini, segretario della Cgil, la sollecita da tempo Carlo De Benedetti, la predica Thomas Piketty. Ma di che imposta stiamo parlando? Esiste altrove? Quanto frutta? È vero che riduce le diseguaglianze? E soprattutto potrà mai funzionare in Italia? Tutte domande senza risposta, o meglio, con risposte contraddittorie. Una sola cosa è certa: le aspettative sono grandi, del tutto eccessive.

 

Proprietà, titoli, immobili, successione, tutto ciò è tassato ovunque e in forme diverse. Da questo punto di vista la Gran Bretagna è quella dove si paga di più (a cominciare dalla successione); potremmo dire che non si tratta esattamente del paese dove regna l’uguaglianza, ma è anche vero che le imposte sul possesso non hanno messo in ginocchio né la City né il capitalismo britannico. Dunque, calma e gesso, meglio ridimensionare speranze e illusioni. La patrimoniale della quale si discute non è semplicemente la percentuale da applicare a chi possiede azioni o una nuova versione delle imposte sulla casa. Nemmeno una variante della più assurda e ingiusta delle tasse sulla proprietà, quella sulla televisione per finanziare la Rai (addirittura caricandola sulla bolletta elettrica che è una tariffa, non un’imposta). No, se il dibattito ha un senso, si tratta di far pagare i pochi che hanno troppo, colpendo non i loro guadagni attuali, ma la loro ricchezza accumulata nel tempo.

 

Ci si arriverà, per far fronte alla Finanziaria monstre del prossimo autunno. La ricchezza degli italiani è ingente, nonostante la crisi

Da quando, poi, ha avuto successo “Il capitale nel XXI secolo”, l’opus magnum di Thomas Piketty secondo il quale i patrimoni accumulati nel passato (mai così ingenti da quando esistono testimonianze storiche) stanno soffocando lo sviluppo presente e soprattutto il progresso futuro, l’idea di una patrimoniale globale non è più un tabù nemmeno per l’establishment. Proprio recentemente Piketty ha scritto un articolo per sottolineare che ne sta parlando addirittura Donald Trump (il che non vuol dire molto visto che Trump parla sempre e di tutto) e potrebbe diventare, secondo l’economista francese, un tema per la campagna presidenziale il prossimo anno, sottraendo così quest’arma propagandistica ai liberal come Bernie Sanders. Ma come stanno le cose?

  

 

Oggi sono solo tre i paesi dove esiste una qualche forma di imposta sul patrimonio (Francia, Spagna e Norvegia) mentre nel 1990 erano 12. In Svezia è stata abolita dopo il 2006 dal governo conservatore guidato da Fredrik Reinfeldt, cancellando la tassa (con aliquota dell’1,5 per cento) introdotta nel 1947 su ricchezze che eccedono i 160 mila euro. Solo il 2,5 per cento degli svedesi pagava questa imposta e certo non quelli che hanno capitali all’estero. Secondo uno studio di Nordea Bank ammontano ad almeno 53 miliardi di euro.

 

Il leader di Podemos Pablo Iglesias assieme all'economista francese Thomas Piketty nel 2015 (Foto LaPresse)


    

Una difficoltà: l’accertamento dei patrimoni netti. Le condizioni di Einaudi. La fuga dei capitali. L’altra via proposta dalla Bundesbank 

In Francia l’imposta sulle grandi fortune arriva nel 1982 con François Mitterrand e la sinistra al potere, viene abolita quindici anni dopo da Jacques Chirac che poi la reintroduce. Anche Nicolas Sarkozy, appena eletto, nel 2007, annuncia l’intenzione di sopprimerla, ma il buco che avrebbe aperto nelle casse dello stato in piena crisi mondiale, lo convince a soprassedere adottando, invece, dei correttivi. Il limite esente, che in precedenza era di 800.000 euro, è salito a un milione e 300.000 euro; gli scaglioni sopra questo tetto sono 5, con aliquote che vanno dallo 0,5 per cento all’ 1,5 per cento. Sarkozy prima eleva l’abbattimento del valore della prima casa dal 20 per cento al 30 per cento; poi stabilisce che la somma fra l’imposta sul reddito e quella di solidarietà non debba eccedere il 50 per cento del reddito famigliare. Alla fine, l’incidenza di queste due misure è molto limitata: il gettito si colloca poco sopra i 4 miliardi di euro (tenete bene a mente questa cifra: sono 4 miliardi, non 40 come ha sparato Landini).

  

 

In Norvegia il tentativo è stato un vero flop. Introdotta nel giugno del 2017 su base volontaria, ha raccolto poche decine di migliaia di corone, meno di duemila euro. Sembrava l’uovo di Colombo: consentire ai super ricchi norvegesi – favoriti come e più degli altri cittadini dai massicci tagli fiscali varati a sostegno dell’economia nazionale – di lavarsi la coscienza versando nelle casse dello stato un’imposta “omaggio”, una sorta di beneficenza erariale per mantenere l’alto livello di servizi. Beata ingenuità scandinava. Pomo della discordia, il piano di sgravi varato a fine 2013 dal governo di centrodestra, quando il crollo dei prezzi del petrolio ha messo in difficoltà (si fa per dire, ovviamente) l’economia nazionale. L’obiettivo, rilanciare il potere d’acquisto delle famiglie, è stato in gran parte raggiunto. Unico problema: il taglio orizzontale di imposte ha premiato soprattutto i benestanti, allargando la forbice sociale. A lanciare l’allarme, mettendo sul piatto il suo caso personale, è stato Jonas Gahr Store, leader dell’opposizione laburista, che malgrado un reddito di 8 milioni di euro si era ritrovato, grazie alle riforme, a pagare molte meno tasse di prima. L’esecutivo ha raccolto l’appello lanciando l’auto-dazio per i ricchi. Ma in pochi – in un paese dove l’aliquota più alta è al 47,6 per cento – hanno colto l’opportunità. Persino Store, alla prova dei fatti, non ha versato un centesimo.

  

La predica Piketty, secondo il quale i patrimoni accumulati nel passato soffocano lo sviluppo presente e il progresso futuro

In Spagna, un anno fa, il governo di Pedro (Sánchez, socialista) e Pablo (Iglesias di Podemos) ha introdotto un’imposta alla francese: 1 per cento soltanto su chi possiede oltre 10 milioni di euro e un’aliquota del 49 per cento sui chi guadagna oltre 300 mila euro l’anno. Non si può definire una vera patrimoniale, ma semmai una sovrattassa sui ricchi accompagnata da una imposta dello 0,2 per cento sulle transazioni finanziarie per le imprese con un capitale superiore al miliardo di euro. Anche gli spagnoli si sono trovati di fronte al solito dilemma su come calcolare con esattezza il patrimonio immobiliare, se far riferimento al catasto o ai valori di mercato i quali, però, sono saliti alle stelle fino al 2008 e sono precipitati subito dopo. Un problema che s’aggiunge all’altro: la ricchezza da prendere in considerazione è quella dichiarata? E come acchiappare chi evade? Un interrogativo che in Italia è senza risposta. Qui vengono tassate le diverse voci che compongono la ricchezza personale e famigliare. Sovrapporre una patrimoniale alle imposte già esistenti sulla casa o i risparmi, significa colpire più volte lo stesso reddito.

 

Le imposte italiane non sono per nulla basse, ma dopo i 75 mila euro scatta l’ultima aliquota, quella del 43 per cento, che è uguale per tutti, anche per i milionari, potremmo dire che per loro la flat tax esiste già. La patrimoniale non c’è mai stata, a meno che non si consideri una patrimoniale la tassa del 6 per mille sui conti correnti imposta dal governo Amato nel 1992, quando l’Italia rischiava di finire nell’occhio del ciclone per una tempesta speculativa che stava aggredendo il debito pubblico. Quella imposizione sui conti correnti colpiva tutti i detentori, non solo i ricchi. Una “patrimonialina” è stata definita anche l’Ici, l’Imposta comunale sugli immobili, introdotta dal governo Monti nel 2012 (anche in quel caso in piena tempesta finanziaria), oggi abolita sulle prime case e applicata solo sulle seconde. Anche l’imposta di successione è una forma di patrimoniale: quasi abolita dal primo governo di Silvio Berlusconi (fu il primo provvedimento del suo governo), venne reintrodotta dal governo di Romano Prodi. La soglia è alta, circa un milione di euro. Una delle maggiori difficoltà, che riguarda le patrimoniali in generale, è l’accertamento dei patrimoni netti.

 

In Francia i valori degli immobili da dichiarare in sede d’imposta di solidarietà sono quelli correnti di mercato, mentre le due imposte locali sugli immobili, la taxe fonciére e la taxe d’habitation si basano su valori di tipo catastale. Ma oltralpe l’amministrazione è in grado di controllare se i proprietari di immobili con valore elevato presentino la propria dichiarazione e lo facciano in modo veritiero. C’è da dubitare che l’Agenzia delle entrate faccia altrettanto. Luigi Einaudi in un saggio del 1946 aprì la porta alla patrimoniale, ma a tre condizioni: che fosse un’imposta straordinaria; che mettesse la parola fine “all’era lunga dell’incremento continuo ed esasperante delle imposte ordinarie sul reddito”; che segnasse l’inizio di una fase di forte credibilità di una nuova classe politica. Nulla a che vedere con un aumento delle imposte sui capitali che Einaudi considerava negativo: prima verrebbero colpiti i redditi, poi la quota di reddito risparmiata che è essenziale per la crescita del paese.

  

La tesi di Piketty è la più radicale e la meno realistica. L’economista francese sostiene che il rapporto patrimonio-reddito sta tornando dappertutto ai livelli che aveva nella Belle époque. Questo processo si accompagna a un aumento della diseguaglianza perché il rendimento del patrimonio, nel suo complesso, si mantiene nettamente superiore al tasso di crescita del reddito. La rendita, insomma, spiazza sia i salari sia i profitti. Tra le due guerre mondiali i patrimoni hanno subito una caduta molto accentuata; nei “Trenta gloriosi”, cioè gli anni della ripresa economica, la distanza tra il tasso di rendimento del patrimonio e quello del reddito si è ridotto, ma ora le forze di fondo stanno riemergendo e la disuguaglianza cresce soprattutto perché si riduce il reddito.

   

Oggi sono solo tre i paesi dove esiste una qualche forma di imposta sul patrimonio. Nel 1990 erano 12. Il flop norvegese

Piketty ha in mente l’impôt de solidarité sur la fortune adottata in Francia. Si tratta di un’imposta ordinaria, cioè periodica (su base annuale), tale da poter essere pagata, in condizioni normali, con il rendimento del patrimonio (esclusa la prima casa). Deve essere progressiva, con scaglioni simili all’imposta sul reddito, con tre aliquote: zero (cioè una fascia esente) fino a un milione di euro; 1 per cento da un milione a cinque milioni; 2 per cento dai cinque milioni in su. In questo modo si ottiene un prelievo crescente in rapporto al patrimonio. I soggetti all’imposta, pur essendo solo il 2,5 per cento dei contribuenti, possiedono il 40 per cento del patrimonio. Si tratta quindi di una massa pari a due volte il prodotto lordo, e l’applicazione delle aliquote dell’1 per cento e del 2 per cento sugli scaglioni del patrimonio superiori a 1 o a 5 milioni fornisce un gettito pari ai due punti di pil. In Italia sarebbe qualcosa come 35 miliardi di euro.

  

 

Sono esercizi di aritmetica contabile che nulla hanno a che fare con l’economia reale. Che cosa succede in un paese aperto ai mercati internazionali se di punto in bianco vengono tosati dalle imposte due punti di prodotto lordo? La patrimoniale, così come l’insieme della politica economica post keynesiana, quella che affida alla politica fiscale il ruolo salvifico di rimediare alle ingiustizie distributive e rilanciare nello stesso tempo la crescita, si scontra con l’apertura dei mercati che provoca immediatamente una fuga dei capitali verso l’estero e un arresto dei flussi finanziari che dall’estero entrano nel paese. Ne era consapevole lo stesso John Maynard Keynes, e i suoi discepoli più seri, non a caso, accompagnavano queste ricette con una buona dose di protezionismo, fino ad arrivare alla chiusura dei flussi finanziari con l’estero come misura eccezionale una tantum, insieme a una tassazione sulle transazioni finanziarie. L’Italia degli anni Settanta si trovava in questa situazione, con un controllo politico-amministrativo sui cambi che non ha evitato in ogni caso svalutazioni a catena, crisi finanziarie e iper-inflazione. Dunque, meglio non farsi ingannare. Chi propone la patrimoniale, o pensa a una misura del tutto propagandistica e di scarsa efficacia, modello francese o spagnolo, oppure ha in mente una politica protezionistica di più ampio respiro che tende a isolare il paese fino alla uscita dall’euro. Attenti, dunque, al fascino egualitario della imposta patrimoniale, dietro si nasconde un sovranismo che confina con l’autarchia.

 

Karsten Wendorff, capo della divisione finanza pubblica della Bundesbank, la Banca centrale tedesca, ha proposto una strada diversa: una sorta di prestito straordinario ipoteticamente del 20 per cento, acquistando titoli di stato chiamati buoni di solidarietà, riservati a chi ha una ricchezza medio-alta. Per esempio una famiglia con proprietà di un milione di euro, tra titoli e immobili, comprerebbe solidarity bond per 200 mila euro che andrebbero a ridurre il debito. È un prelievo straordinario, non una tassa perché i 200 mila euro non si perdono a meno che lo stato italiano non fallisca (ma il prestito forzoso serve proprio a evitarlo) e in ogni caso i sottoscrittori riceverebbero un interesse garantito.

 

Una misura del genere spiazzerebbe parte del risparmio che in teoria potrebbe andare in Borsa per finanziare gli investimenti delle imprese, dunque avrebbe un impatto negativo sulla crescita nel breve periodo, tuttavia la riduzione del debito consente un più ampio margine di manovra alla politica economica per sostenere la crescita riducendo le imposte o aumentando gli investimenti pubblici. La proposta Wendorff non è la panacea, ma è meglio di una patrimoniale perché non taglia di netto la ricchezza. Andrebbe discussa nel merito. Già, ma da chi? Da un governo che ha scelto di aumentare il disavanzo pubblico infischiandosene del debito? Da una coalizione gialloverde capace di raccontare agli elettori che l’Italia è il paese del pasto gratis?

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