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Salvini in bolletta. Il bluff del taglio delle accise, il caro petrolio e i compagni No Tap

Renzo Rosati

Nessun sollievo per automobilisti e consumatori che vedranno aumentare i costi dell’energia, tra battaglie trumpiane e dipendenza italiana

Roma. Il prezzo della benzina oltre i 2 euro in autostrada non è una novità in Italia, ma c’è una differenza: nella campagna elettorale 2018 Matteo Salvini aveva promesso l’abolizione delle accise che concorrono a determinare i due terzi del costo dei carburanti (per l’esattezza, 1,088 euro sul costo medio di 1,65 della super su tutto il territorio nazionale). Almeno sul piano della propaganda era convinto di averla sparata giusta il capo della Lega a sbilanciarsi prima ad abolire, poi, a dicembre scorso, a togliere almeno le sette accise più vecchie sulle 17 che rendono il pieno al distributore più caro che nel resto dell’Unione europea, benché il prezzo industriale di benzina e gasolio sia invece al decimo e diciottesimo posto su 28.

 

Così ridimensionata la guerra salviniana delle accise spaziava comunque da quella per la guerra d’Etiopia alla ricostruzione del terremoto in Irpinia, per un totale di 0,1135 euro sui quali grava poi l’Iva del 22 per cento. Nel complesso 0,14 euro: poteva non rivelarsi un’impresa proibitiva. Salvini infatti si è tenuto alla larga dalle accise più recenti o pesanti, quale quella da 0,106 euro istituita nel 1983 per la guerra in Libano, o a lui più consone come le accise del decreto salva Italia del 2011 di Mario Monti (0,082 su benzina, 0,113 su diesel). Neppure l’accisa da 0,04 euro imposta sempre nel 2011 dal governo di centrodestra per “emergenza immigrati dopo la crisi libica” ha stimolato la propaganda salviniana, forse perché a quel governo partecipava la Lega. Dopo il 2012 accise non se ne sono più aggiunte, eppure il vicepremier cerca sottilmente di attribuirne la paternità agli ultimi governi del Pd. “L’abolizione delle accise” ha detto a fine 2018 “è eccessivamente ottimistica. L’abolizione delle più vecchie mi riprometto di portarla a casa nel 2019. Per ora abbiamo bloccato gli aumenti”.

 

In realtà gli aumenti sono bloccati da sette anni, con la sterilizzazione delle clausole di salvaguardia dei conti pubblici che è invece a serio rischio con il governo gialloverde. E quanto alle accise “più vecchie” a essere precisi esistono solo nominalmente, ormai accorpate in un albo unico: può darsi che Salvini non lo sappia, ma non può ignorarlo il suo dioscuro Luigi Di Maio il cui ministero dello Sviluppo economico ne conserva il registro. Ma poiché nulla si cancella delle sette accise salviniane resiste la contabilità. Eliminarle significherebbe ridurre del 13 per cento i 25,7 miliardi incassati nel 2017 dallo stato: 3,3 miliardi.

 

Quanto la statalizzazione di Alitalia e il rimborso al “risparmio tradito”, due cavalli di battaglia salviniani. Oppure, se quest’ultima voce sarà una tantum, quanto un anno e mezzo di Alitalia pubblica. E dunque: siamo sicuri che Salvini sia in buona fede? Anche perché non è solo questione di accise. Benché il prezzo industriale dei carburanti sia un terzo del totale, risente di due fattori: il più immediato è l’embargo sul petrolio iraniano promosso da Donald Trump, nume ispiratore salviniano, per minacciare indirettamente anche Turchia e Cina, importatori del greggio dell’ayatollah.

 

L’altro fattore è la dipendenza energetica italiana dall’estero, in particolare dalla Libia e dalla Russia. Già la Lega ha solo tiepidamente contrastato le crociate No Tap e No Triv del M5s: anzi, il governatore leghista del Veneto Luca Zaia si era schierato per il referendum antitrivelle del 2016. Sul fronte libico, il ministro dell’Interno, interamente preso a respingere barconi, ha palesemente ignorato i segnali (che provenivano anche dall’Eni) dell’indebolimento del governo di Fayez al-Sarray, il suo interlocutore sulla quarta sponda. Basta però dare la colpa alla Francia.

 

Quanto alla Russia, non pare che Salvini riesca a far valere l’amicizia con Vladimir Putin: come nel caso di Trump, anche con l’uomo forte di Mosca un’altra dimostrazione che l’appartenenza al comune fronte antieuropeo e sovranista è il contrario del “prima gli italiani” che Salvini esibisce su poster e giubbotti. Lo si era già visto sull’immigrazione e sul debito nazionale. Lo si vede ora con la progressiva perdita di un’altra sovranità, quella energetica.