Mario Draghi (foto LaPresse)

Chi comprerà il nostro debito senza la stampella di Draghi?

Marco Cecchini

Gli investitori rivedono le strategie di acquisto di obbligazioni. L’Italia non è favorita. Nel 2019 ci sono 168 miliardi da piazzare

Roma. Crisi Carige e fine del Quantitative easing, la stampella che per tre anni ha tenuto su gli acquisti di Btp, sono una miscela pericolosa per l’Italia. E il rialzo dello spread delle ultime ore lo conferma. Il segnale che viene dai mercati è che non è finita. La chiusura del capitolo manovra non è bastata a ripristinare la calma sulla quale aveva scommesso il ministro dell’Economia, Giovanni Tria. E le tensioni si accumulano in un mese, gennaio, che è tradizionalmente critico per un paese con alto debito. E’ adesso che i gestori di fondi e patrimoni,che amministrano una ricchezza pari a circa 800mila miliardi di dollari nel mondo, gran parte della quale in titoli di stato, impostano le strategie di investimento per l’anno appena iniziato. In altre parole, decidono dove e come investire. Da questo punto di vista questo inizio d’anno rappresenta uno spartiacque pericoloso. Nel 2018 i grandi gestori internazionali infatti sono usciti dai Btp, soprattutto in estate, ma non hanno sostanzialmente modificato i pesi dell’azionario e obbligazionario Italia, aspettando di capire meglio le intenzioni di un governo del quale non si fidano ma su cui “finanziariamente” non hanno ancora pronunciato un giudizio definitivo. Stanno prendendo le loro decisioni in questo frangente. E a Via XX Settembre sono in ansia. In ansia perché non c’è più il Quantitative easing e al Tesoro sanno che non si può fare affidamento all’infinito sulla capacità di assorbimento delle banche nazionali. In ansia anche perché sul mercato obbligazionario internazionale tira una brutta aria.

 

Il quadro è questo. Nel 2019 in Italia vanno in scadenza 400 miliardi di titoli, una metà circa dei quali sono Bot che non pongono grossi problemi di collocamento per la brevità della scadenza, il resto è costituito da Btp a medio e lungo termine cui si aggiungono nuovi titoli da emettere per quasi 60 miliardi necessari per finanziare il deficit 2019. Dato che la Bce rinnoverà titoli in scadenza per non più di 30 miliardi, il resto – si calcola 168 miliardi – dovrà essere assorbito dal mercato. La domanda che tutti a questo punto si fanno è: chi compra? Gli investitori esteri non sono nel mood di coprire il buco creato dalla fine del Qe. Ed è chiaro anche che le banche italiane insieme alle assicurazioni già ora sono piene fino al collo di titoli di stato. Altrettanto chiaro è che le famiglie non hanno alcuna voglia di esporsi, come ha dimostrato il flop dell’asta Btp Italia destinata al retail lo scorso novembre. Dunque, molto dipenderà dal fattore fiducia e dall’andamento dei tassi d’interesse americani e l’intensità del rallentamento economico che questo potrà causare nell’economia guida, in una parola il quadro economico internazionale. In effetti sembra proprio questo nelle ultime settimane il fronte più a rischio. Secondo un sondaggio di Bank of America il 53 per cento degli investitori si aspetta una decelerazione dello sviluppo globale nel 2019 a causa della restrizione monetaria in atto negli Stati Uniti di cui la recente decisione della Federal Reserve di alzare i tassi è una prova eloquente. Ci sono istituti di ricerca, come l’inglese Capital Economics che prevedono un “violento rallentamento dell’economia americana tra non molto”.

 

Altri sono più cauti. Ma preoccupa tutti comunque il fenomeno dell’appiattimento della curva dei tassi, ovvero la tendenza a un aumento degli interessi a breve scadenza maggiore di quelli a lunga, cosa che in genere anticipa proprio l’inizio di una recessione. Da mesi le obbligazioni con le quali le corporation fanno provvista di capitali faticano a essere collocate sul mercato che chiede rendimenti sempre più alti. Declinata nei termini di un paese a sovranità finanziaria limitata come l’Italia questa situazione si traduce in un binomio tra i meno favorevoli che si possa immaginare: vale a dire condizioni di collocamento dei titoli pubblici più onerose in un quadro recessivo dell’economia reale.