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Avanza la Pol. Corr. Inc., l'industria del buono è diventata di tendenza

Mariarosaria Marchesano

Aziende che non inquinano e non discriminano, paladine della “diversità”. Gli investimenti etici e sostenibili sono diventati una moda mondiale, sviluppata in Europa, per evitare danni reputazionali e attirare giovani risparmiatori

Aziende che non inquinano. Aziende che non discriminano le donne, i gay e i neri. Aziende che non producono armi, carbone, alcool, pornografia. Aziende “socialmente responsabili”. Sembra esserci il desiderio di un mondo politicamente corretto dietro la nuova domanda di investimenti finanziari che negli ultimi vent’anni si è fatta largo soprattutto in Europa ma che sta conquistando velocemente anche gli Stati Uniti, storicamente refrattari a mettere il profitto in subordine a qualsiasi altro obiettivo. In realtà c'è anche la consapevolezza che questo trend di “finanza sostenibile”, che con la beneficenza c’entra molto poco, è la strada per ottenere rendimenti più elevati in barba a pregiudizi storici secondo i quali con la finanza etica non si guadagna abbastanza. Tant’è che i più grandi gestori di patrimoni del mondo – Carmignac, Hsbc, Pictet solo per fare qualche esempio – stanno adottando criteri particolarmente selettivi per individuare le aziende target. Secondo un'analisi di Street Street Global Exchange, al 30 giugno 2018 oltre un quarto degli 88 mila miliardi di dollari di risparmio impiegati a livello mondiale attraverso operatori specializzati è destinato ad aziende o a strumenti finanziari selezionati in base a criteri Esg (Environment, social and governance), con una crescita del 17 per cento rispetto allo stesso periodo del 2017.

   

Infografica di Enrico Cicchetti


  

Per arrivare a questo ci sono voluti incidenti come quello in cui incorse la Nike nel 1996, quando le foto dei bambini pakistani che cucivano i palloni fecero il giro del mondo (oggi, però, Nike ha cambiato radicalmente direzione con campagne per l’istruzione infantile e per migliorare le condizioni di lavoro) o come il più recente dieselgate della Volkswagen (diventata dopo quest’evento azienda leader nella realizzazione di prototipi per auto elettriche). In questi e in tanti altri casi – un altro memorabile è l’incidente della British Petroleum nelle acque del Golfo del Messico – il danno che ha subìto l’azienda è stato talmente grande da provocare gravi perdite anche ai suoi azionisti, grandi e piccoli.

   

Il rischio reputazionale è diventato oggi un fattore discriminante soprattutto in considerazione del risalto planetario che a questi eventi viene dato dai social network. Fino a qualche tempo fa queste considerazioni venivano ritenute roba da ricchi, da “upper class” che si può permettere di rinunciare al guadagno per prediligere l’etica. In realtà, non è più così. Secondo Jean Raby, ceo di Natixis Investmente Managers, “gli investitori sono sempre più preoccupati per questioni che vanno oltre i ritorni finanziari. Vogliono essere azionisti di aziende che riflettano le loro convinzioni e siano gestite in modo etico. I fattori che guidano questo cambiamento sono numerosi: una più ampia consapevolezza dei temi che stanno plasmando il nostro futuro, compresi i cambiamenti demografici e climatici e gli sviluppi tecnologici; una maggiore attenzione e controllo da parte di politici e autorità e una generazione di giovani investitori più attenti all’impatto sociale dei propri investimenti”. Da un’indagine di Natixis, risulta che i tre quarti degli investitori vogliono che i propri soldi siano impiegati in linea con i valori personali. E la tendenza è ancora più accentuata tra i millennial: l’84 per cento si dichiara sensibile a obiettivi di benessere sociale. Il dato interessante, è che questo trend riguarda soprattutto l’Europa, che secondo Hsbc esprime l’87 per cento di investimenti alla cui base c’è una strategia di Esg con il Regno Unito a pari merito, mentre gli Stati Uniti si attestano al 21 per cento e Hong Kong registra il 13 per cento. In questo quadro l’Italia sembra perfettamente allineata al trend europeo. Secondo Assogestioni, nel nostro paese il patrimonio relativo ai fondi sostenibili ammonta a 13,8 miliardi di euro al 30 giugno 2018, con un incremento del 62 per cento rispetto a dicembre 2017. “In effetti, c’è stata una forte accelerazione della domanda verso questo tipo di investimenti – dice al Foglio Nicola Trivelli, amministratore delegato di Sella Sgr, uno dei primi operatori in Italia a lanciare un fondo etico ormai venti anni fa – All’inizio si trattava di devolvere in beneficenza una parte dei proventi ma poi le cose sono cambiate. Sono nati criteri selettivi di investimento che in una prima fase sono stati applicati per escludere determinati settori che non erano in linea con standard etici come l’alcool, il gioco d’azzardo, le armi, la pornografia e il tabacco. Poi siamo arrivati a costituire, a partire dal 2015, il primo fondo a ‘impatto’ che rispecchia un modello più evoluto e inclusivo perché è aperto ad aziende e a strumenti finanziari che generano effetti positivi sull’ambiente e sul piano sociale o che si sforzano in modo concreto di minimizzare quelli negativi. Esempi in questo senso possono essere Enel e A2A, che hanno dimostrato un forte orientamento alle energie rinnovabili pur partendo da un business tradizionale”. Ma se è così vuol dire che la “finanza sostenibile” è una nuova frontiera di business.

  

Quanto si guadagna investendo con i criteri Esg? La sorpresa arriva da una recente ricerca di Ernst Young (EY) dalla quale risulta che in Europa negli ultimi tre anni i fondi così detti sostenibili hanno ottenuto un rendimento medio annuo del 5,7 per cento contro il 4,7 per cento calcolato per tutti i fondi comuni. Questo dato è stato evidenziato da EY sulla base di una rilevazione condotta da Banor Sim e dal Politecnico di Milano che, mettendo in relazione il rating Esg e la performance di mercato delle aziende sull’indice Stoxx Europe 600, hanno di fatto archiviato tutti i preconcetti sulla scarsa profittabilità della finanza etica. Rossella Zunino di EY spiega: “Il dato è ancora più interessante se si osserva che risultano circa 23 mila miliardi di dollari gestiti a livello internazionale in base a criteri di sostenibilità ed è una quota cresciuta di sei volte rispetto a dieci anni fa. La sostenibilità identifica soprattutto un approccio e la sua integrazione nelle strategie e nei processi sta già consentendo alle organizzazioni del settore finanziario di creare valore, non solo nel lungo periodo”.

   

Tornando al tema reputazionale, Trivelli di Sella Sgr, fa notare come stiano nascendo nuove sensibilità da parte degli investitori nella valutazione di un’azienda. “Uno scandalo come quello di Facebook sul trasferimento dei dati sensibili degli utenti e l’episodio avvenuto in un punto vendita di Starbucks, dove sarebbe stata discriminata una persona di colore, rivelano che la reputazione è ormai un tema di successo economico”. Pensa che in questo filone si inseriranno anche le molestie sessuali? “Non mi sorprenderei che anche questo diventasse un criterio di valutazione del rischio”, conclude Trivelli.

  

Per sintetizzare si può ricorrere alle parole usate da Laurence D. Fink nella tradizionale lettera che da capo e co-fondatore di BlackRock, il colosso mondiale del risparmio gestito, ha inviato agli azionisti a inizio 2018. “Per prosperare nel tempo ogni azienda deve non solo dare risultati finanziari positivi, ma anche mostrare come contribuisce positivamente alla società. Le aziende devono agire con beneficio di tutti i propri stakeholder, inclusi gli azionisti, i dipendenti, i clienti e la comunità di riferimento”. L’industria del pol. corr. è diventata così una tendenza (anche) della grande finanza.

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