Tornare al localismo bancario, pessima idea
La controriforma del credito cooperativo è fuori mercato e rischiosa
La frenesia anti riforme del governo si estende alle banche, in particolare alle Casse di credito cooperativo che secondo la legge del 2016 – approvata dopo un lungo braccio di ferro con i difensori di poteri di tipo localistico – dovrebbero fondersi in gruppi di maggiori dimensioni, trasformabili in spa, per reggere l’urto dei mercati. Lega e Cinque stelle hanno sempre difeso il modello locale, che ha mostrato tutti i suoi limiti sia in Italia (da Mps alle quattro banche finite in bail-in), sia in Germania, con le Landeskasse, le banche controllate appunto dai land. Benché molte casse italiane abbiano già avviato il percorso per confluire in due gruppi individuati in Iccrea e Cassa centrale, il premier Giuseppe Conte ha convocato a Palazzo Chigi i presidenti delle commissioni Finanze di Camera e Senato, Carla Ruocco (M5s) e Alberto Bagnai (Lega) per coordinare gli emendamenti di maggioranza che vanno dallo stop alle fusioni fino a misure per non contabilizzare i titoli pubblici in portafoglio a valori di mercato. Questo per evitare l’esposizione allo spread: cioè non eliminando la causa, ma sbianchettando le conseguenze. Un esempio fulgido di una banca che non risponde a criteri contabili di mercato è stata la Popolare di Vicenza, che distribuiva azioni non quotate a clienti che poi hanno perso l’intero capitale. Ma qui è scattato il “ristoro” in nome del risparmio tradito. Per le casse, spiega testualmente Luigi Di Maio, “occorre tornare alla funzione di tutela del territorio sottraendole a chi le avrebbe rese scalabili per consegnarle ai vari Wolf of Wall Street”. La sapienza tecnica del vicepremier è corrisposta dalla Lega, sempre in nome del localismo. Il “cambiamento”, verso però i tempi andati, magari prevede che si torni alle nomine degli amministratori fatte direttamente dai politici, dai vescovi e avallate dai sindacati. Tanto se qualche banca fallisce paga lo stato.
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