Pierre Moscovici e Giovanni Tria (foto LaPresse)

Dare la colpa a Bruxelles sulla manovra è una“défaillance tecnica”

Veronica De Romanis

Secondo Tria, la Commissione Ue non va ascoltata. Per il governo verrà spazzata via alle prossime elezioni e se ne insedierà una sovranista con il mandato di cambiare l’architettura europea, a cominciare dalle regole fiscali. Ecco come

“Un’analisi non attenta e parziale”, questo il giudizio del ministro Tria sulle previsioni della Commissione europea. Nonostante “le informazioni e i chiarimenti forniti”, Bruxelles avrebbe commesso una “défaillance tecnica”, ossia un fallimento (il ricorso ad un termine francese forse non è casuale visto che la nota è indirizzata a Pierre Moscovici, il Commissario agli Affari economici). Secondo Tria, la Commissione avrebbe dimostrato di non essere all’altezza del proprio compito (nella lettera manca, tuttavia, l’elenco degli errori commessi) e, pertanto, non può essere ascoltata. Del resto, come sostiene compatto il governo, questa Commissione verrà spazzata via alle prossime elezioni. Al suo posto, si insedierà una nuova Commissione espressione di una maggioranza sovranista con il mandato di cambiare l’architettura europea, a cominciare dalle regole fiscali che il governo ha deciso di violare. Vediamo come.

    

In primo luogo, il disavanzo nominale sale. Nel 2019, il disavanzo si attesterà al 2,4 per cento, 0,6 punti percentuali in più rispetto al 2018. Come osservato da diversi esponenti della maggioranza, il 2,4 per cento – un limite massimo lo definisce Tria – è ben al di sotto della soglia del 3 per cento stabilita dal Trattato di Maastricht. Pertanto, una bocciatura da parte di Bruxelles non può essere in alcuno modo giustificata se non dalla volontà politica di affossare questa coalizione. Una simile interpretazione, efficace dal punto di vista della comunicazione, non tiene conto del fatto che il rispetto del 3 per cento di per sé non è sufficiente. Le regole introdotte dopo Maastricht hanno stabilito che ciò che conta è la dinamica del disavanzo strutturale, ossia il disavanzo depurato dagli effetti del ciclo economico. In effetti, se ci si concentra solo sul disavanzo nominale, il rischio è quello di dover implementare politiche pro-cicliche. In recessione, ad esempio, il disavanzo nominale tende a aumentare con l’attivazione degli ammortizzatori sociali, come i sussidi che crescono con l’aumentare della disoccupazione. Per evitare di implementare una stretta del disavanzo nominale in una fase di recessione (che non farebbe altro che aggravare la crisi), il saldo a cui si fa riferimento è quello depurato dall’effetto del ciclo economico. In questo modo, si ottiene un indicatore della politica fiscale attuata dal governo: se il disavanzo strutturale sale, il governo sta attuando una politica fiscale espansiva, se scende la politica è restrittiva. Le regole europee prevedono che tale saldo diminuisca ogni anno di almeno lo 0,5 per cento, fino a raggiungere il pareggio nel medio termine. La logica è semplice: in recessione gli stati possono aumentare la parte del disavanzo derivante dagli effetti del ciclo (e dovrebbero ridurla in espansione), ma il disavanzo strutturale, ossia il saldo che risulta dalle politiche economiche del governo, deve tendere a zero nel medio termine, esattamente come farebbe un buon padre di famiglia.

  

Veniamo quindi al secondo punto. Il disavanzo strutturale stimato dall’esecutivo gialloverde si attesta all’1,7 per cento, 0,8 punti percentuali in più rispetto all’anno in corso. In base agli accordi presi con Bruxelles, questo saldo dovrebbe scendere di almeno 0,6 punti percentuali. La deviazione ammonta, quindi a 1,4 punti percentuali circa 25 miliardi di euro.

 

In terzo luogo, il pareggio di bilancio non è previsto. Nella nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza (Nadef), il disavanzo strutturale resta stazionario all’1,7 per cento per l’intero arco di tempo 2019-2020, in violazione con la regola del pareggio di bilancio. A conti fatti, il governo non rispetta nessuna delle regole che – va sempre ricordato – sono state concordate e sottoscritte anche dall’Italia. Secondo la Commissione, peraltro, le deviazioni sopra descritte sono sottostimate. Con una crescita per il 2019 pari all’1,2 per cento (leggermente più elevata di quella prevista da tutti gli organismi nazionali e internazionali, ma pur sempre inferiore all’1,5 stimata dal governo), il disavanzo nominale si attesterebbe al 2,9 per cento e la deviazione del disavanzo strutturale sarebbe pari all’1,8 per cento, oltre 30 miliardi di euro.

  

È certamente vero, come sostengono gli economisti della maggioranza, che previsioni “fantasiose” sono state fatte anche dai precedenti governi. Basti pensare a quelle sulla crescita contenute nelle passate Nadef. Ad esempio quella del 2014, firmata da Renzi e Padoan, prevedeva una crescita media per il biennio 2015-2016 pari a 1,5 per cento, un punto percentuale in più rispetto alla crescita effettiva. Pubblicare previsioni un po’ gonfiate per abbellire i numeri della finanza pubblica è un metodo che la Commissione conosce bene, e, in qualche modo, “sconta” quando formula i pareri per i diversi paesi. Questo è ciò che ha fatto in passato quando ha sospeso il giudizio su quadri programmatici piuttosto “ottimistici”, ma rispettosi – almeno ex-ante – delle regole: la Nadef del 2014 prevedeva una riduzione del disavanzo strutturale tale da raggiungere il pareggio di bilancio nel 2016.

  

È chiaro che una legge di Bilancio come quella attuale, che non rispetta le regole neanche sulla carta, non lascia ben sperare in termini di scostamenti futuri. E, soprattutto, elimina ogni possibilità di dialogo. In fondo bastava poco per trovare un compromesso. Il governo, invece, ha deciso di andare allo scontro. Ha il potere di farlo. Lo ha ribadito il ministro Tria nella sua lettera alla Commissione precisando che “il parlamento italiano ha autorizzato il deficit al 2,4 per cento” e, pertanto, il governo è impegnato a rispettarlo. Che la sovranità in materia fiscale appartenga al parlamento italiano – così come a tutti i parlamenti nazionali dei paesi della zona euro – è pacifico. È il Parlamento che ha il potere di decidere quanto spendere, dove spendere e se finanziare queste spese con tasse o disavanzo. A questo potere, tuttavia, è associata la responsabilità delle scelte compiute. Sarebbe utile, allora, che venisse aggiunto nella suddetta lettera che la responsabilità delle conseguenze della politica economica del governo (eventuale minore crescita, maggiore disoccupazione, maggiore disavanzo, maggiore debito) sono da attribuire unicamente al governo. Così, almeno questa volta, si eviterà, di dare la colpa a Bruxelles.