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Costruttori fragili che scappano dall'Italia

Riccardo Gallo*

Hanno fagocitato i rivali e sono andati lontano dal nostro paese. Ma le famiglie azioniste non hanno creduto abbastanza nell'avventura. Storie di Astaldi, Salini, Condotti e Trevi

Le imprese italiane di costruzione di grandi opere hanno raggiunto dimensioni aziendali ragguardevoli, grazie a molte operazioni di acquisizione e fusione, anche di questi giorni, e hanno conquistato i mercati mondiali grazie all’ingegno imprenditoriale e alla nostra scuola di ingegneria. Ma, a differenza della manifattura, questa conquista non sempre è coincisa con redditività e salute patrimoniale e finanziaria. Anzi, negli ultimi mesi due grandi società di costruzione sono state poste in amministrazione straordinaria e una ha ottenuto di esperire un concordato preventivo. Un’analisi di Salini Impregilo, Astaldi, Pizzarotti, CMC di Ravenna, ai primi quattro posti in graduatoria per fatturato, e poi di Trevi, Condotte e Ghella dimostra che questa anomalia affonda le radici nella storia italiana dell’ultimo ventennio.

 

Salini Impregilo nacque da un’Opa lanciata con successo nel 2013 da Salini su Impregilo e dalla fusione l’anno dopo della prima società nella seconda. A sua volta, Impregilo era nata nel 1993 dalla concentrazione tra Girola, Lodigiani e Cogefar-Impresit (ex Fiat) e nel 1997 aveva preso Italimpianti dall’Iri. In questi giorni sta acquisendo due partecipate estere di Glf (famiglia Mazzi). Vent’anni fa (1998), le vendite di Impregilo (1.648 milioni di euro) venivano per poco più della metà da opere realizzate in Italia e per poco meno all’estero. Oggi (2017), le vendite ammontano a 5.940 milioni e vengono per il 10 per cento dall’Italia e il 90 per cento (nell’ordine) da Africa, medioriente, Asia, Oceania, nord America, Europa, centro e sud America. Successi e tendenza all’internazionalizzazione proseguiranno, visto che l’anno scorso sono stati acquisiti ordini per opere molto importanti a Riad, Washington, Dubai, in Oman, negli Emirati arabi uniti. In Italia, i pochi nuovi ordini vengono dall’Alta Velocità Napoli-Bari.

 

Vicende, regioni di presenza e percentuali di vendite estere sono del tutto analoghe per Astaldi, sia pure su livelli pari alla metà di Salini Impregilo. Nata nel 1922 dal capostipite Sante Astaldi, rimasta leader nazionale in questo campo per tanti anni, cresciuta anche con l’acquisizione di Italstrade dall’Iri e di Dipenta, nei giorni scorsi Astaldi è stata autorizzata dal Tribunale di Roma a presentare proposta di concordato. Nel 1999 le sue vendite (770 milioni di euro) originavano per poco più della metà in Italia, mentre oggi (2017) ammontano a 2.888 milioni e vengono per tre quarti dal resto del mondo. Per ricordare vicende e numeri, non si può prescindere dalle schede di R&S e dell’Ufficio Studi di Mediobanca.

 

I costruttori sono usciti dalla tana domestica per fame, perché in Italia in vent’anni i nuovi investimenti in opere pubbliche si sono dimezzati. Questo processo ha avuto tante cause: reazione a corruzione e Tangentopoli, scarsa praticabilità prima della Legge Obiettivo, poi del Codice degli appalti, infinito contenzioso che nasce dal contrasto tra cittadinanza attiva e Pubblica amministrazione. Sarebbe stato bene però che crescita dimensionale e internazionalizzazione fossero accompagnate da un aumento del capitale di rischio (“capitale netto”) in rapporto all’attivo totale investito, perché in generale quando sul mercato c’è bufera le imprese con poco capitale di rischio volano via. Anzi, siccome tra le voci del capitale netto soltanto il capitale sociale è ancorato indissolubilmente all’impresa, mentre le riserve no (i soci sono liberi di riprendersele quando vogliono), sarebbe servito un forte aumento proprio del capitale sociale. Nell’industria, il capitale netto è in media pari al 40 per cento dell’attivo totale (l’indice si chiama di autonomia finanziaria).

 

A conti fatti, in Astaldi è pari a un 11 per cento e, se il calcolo viene fatto sul solo capitale sociale, scende al 4 per cento. Quando la crisi in Venezuela si è ripercossa sulle opere ferroviarie di Astaldi, la partecipazione locale è stata svalutata per 230 milioni di euro, importo questo superiore a tutto il capitale sociale del gruppo (197 milioni). Non appena poi la crisi in Turchia ha messo in dubbio i ponti in costruzione sul Bosforo e sulla Baia di Izmit, i debiti finanziari di Astaldi (2.300 milioni verso banche come Unicredit e Intesa Sanpaolo e per obbligazioni) sono diventati insostenibili. Quanto a Salini Impregilo, contrariamente a quanto si creda, la debolezza strutturale è simile a quella di Astaldi.

 

Alcuni analisti difendono le aziende e sostengono che a pesare nell’attivo sono le opere in cantiere non ultimate e non fatturate le quali, stando nelle rimanenze di magazzino, è giusto siano finanziate non da capitale di rischio, ma da operazioni bancarie. La risposta a questa tesi viene dalle stesse vicende geopolitiche ora richiamate – Venezuela, Turchia e altro –, le quali conferiscono una rischiosità ai lavori che esula dalla fisiologia del credito bancario e rientra nell’avventura d’impresa. E’ sempre stato così. Nell’autunno 1980 in un Cipes (Comitato per la politica economica estera) Italimpianti e Condotte implorarono “fuori sacco” una garanzia della Sace per i loro cantieri a Bandar Abbas dov’era scoppiata la guerra Iran-Iraq. Ma le due imprese in quella regione facevano gli affari loro, mica svolgevano una missione per conto dello Stato. Così come accade oggi per Astaldi e Salini Impregilo, per esempio, in Venezuela.

 

A ben riflettere, comunque, a sbagliare in passato sono state le banche ché tanto hanno finanziato Astaldi. Avrebbero dovuto quanto meno subordinare il credito al previo aumento di capitale sociale, come minimo per conversione di riserve a capitale. Avrebbero dovuto dire cioè ai soci di Astaldi: noi crediamo nelle vostre attività estere solo se prima ci credete voi e per un vero imprenditore c’è un solo modo di credere: mettere soldi nell’impresa. Ora con la proposta di concordato le banche perderanno parte di quel credito. Assolutamente grave per uno che di mestiere vuole fare il banchiere.

 

Come stanno gli altri costruttori? La società Condotte nel 2016 aveva un indice di autonomia finanziaria (11 per cento) identico a quello di Astaldi, e non a caso è entrata in amministrazione straordinaria, che è una costola della procedura fallimentare. Pizzarotti e Trevi hanno ciascuno un fatturato meno della metà di Astaldi, ma hanno un capitale di rischio in rapporto all’attivo totale più che doppio, quindi stanno meglio. Ciò nonostante, l’8 ottobre scorso Trevi ha varato un aumento di capitale sociale per cassa, ha immesso cioè nuovi capitali freschi come si dice nel gergo, non abbondanti ma certo sufficienti a dire che la salute patrimoniale e finanziaria è sotto controllo. Anche Ghella sta discretamente bene, sia pur su una dimensione minore. Chi sta peggio di tutti è CMC di Ravenna (6 per cento di autonomia finanziaria), per la quale le banche sembra si pongano ancora meno dubbi che per Astaldi e Condotte. Ma CMC è una cooperativa rossa e quindi è un’altra storia.

*economista industriale, Università La Sapienza di Roma

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