Il principe Mohammed bin Salman Al Saud

Chi sono i nemici di Bin Salman che vogliono fermare la quotazione di Aramco

Gabriele Moccia

L'IPO del secolo si sta trasformando in una contesa politico-economica e in un doppio scacco per il principe saudita

Roma. Quella che doveva essere l’offerta pubblica iniziale più grande della storia – la quotazione in borsa del colosso energetico Saudi Aramco – si sta trasformando in una contesa politico-economica che vede il principale fautore della operazione finanziaria, il principe saudita Moḥammad Bin Salman (Mbs), sotto un doppio scacco, interno ed esterno.

  

Giovedì le indiscrezioni della Reuters sul definitivo stop alla quotazione sono state subito smentite a stretto giro dal ministro del petrolio di Riad, Kalid al Falih, secondo cui “il governo resta fedele all’offerta pubblica iniziale, secondo le circostanze e le tempistiche già determinate”. Il ministro ha aggiunto che Riad ha preso provvedimenti per preparare lo sbarco in borsa anche sulla base del miglior momento di mercato. Tuttavia, dentro la nomenclatura del Regno, si fanno sempre più crescenti le preoccupazioni legate agli effetti della cessione di quote della compagnia che rappresenta il forziere delle risorse economiche del paese arabo. Secondo alcuni analisti, tali criticità sono connesse al fatto che una privatizzazione della Aramco, seppur parziale, non garantirebbe ai sauditi il pieno controllo su eventuali attività di audit circa l’esatto ammontare delle risorse petrolifere dell’Arabia Saudita. Informazioni che Riad ha storicamente sempre custodito e che non fanno parte di quella special relationship che unisce la Aramco alle compagnie petrolifere statunitensi presenti nel Golfo. Solo una valutazione indipendente potrebbe svelare, per la prima volta dal 1980, se l’Arabia Saudita sta dicendo la verità sulle sue riserve petrolifere in merito alla loro consistenza e alle effettive possibilità di sfruttamento di giacimenti antichi.

    

Lo scorso maggio, per scogliere anche questo nodo, Bin Salman è volato prima in Europa (Londra e Parigi) e poi a Washington nel tentativo di trovare una strada che mantenga sia le garanzie di remunerazione degli investitori ma che allo stesso tempo garantisca la strategicità delle riserve di greggio. La quotazione di circa il 5 per cento del gigante pubblico saudita è parte essenziale del piano di riforme avviato da Salman per ridurre la dipendenza dal greggio, garantendo risorse aggiuntive pari 2 mila miliardi di dollari frutto della valutazione del colosso energetico.

       

I continui “stop & go” sulla quotazione fanno pensare però che i sauditi non abbiano avuto dalle controparti estere coinvolte con adeguate assicurazioni. Un altro punto dirimente è quello legato al prezzo del petrolio – un fattore esterno che i sauditi non riescono a controllare come in passato – ma che risulta essenziale per vendere con profitto l’Aramco. In questo senso, le piazze finanziarie hanno sempre parlato di un prezzo stabile al barile tra gli 80 e i 100 dollari, valori che si avvicinano ma non si equiparano a quegli attuali che fluttuano attorno ai 70 dollari al barile. Prezzi all’insù e in modo stabile, ecco lo scenario che serve a Riad. Per questo motivo il Regno – allineato alla politica anti-iraniana trumpista – aspetta con trepidazione gli inizi di novembre, allorquando, l’entrata in vigore sui prodotti petroliferi iraniani, potrebbe rappresentare l’assist ideale. In questo modo i sauditi potrebbero presto rientrare in controllo di un altro fattore determinante della loro strategia energetica, l’Opec, il principale cartello dei paesi produttori di greggio. Anche l’Opec, infatti, che rappresenta il termometro del mercato petrolifero – seppure in declino – potrebbe essere ancora utile al rilancio della quotazione della Aramco. In questa battaglia, il principe saudita considerato un riformista deve guardarsi le spalle anche da Russia e Cina, che con la recente offerta alternativa all’offerta pubblica in Borsa tramite acquisto diretto di quote da parte del Fondo sovrano russo-cinese, hanno dimostrato di remare contro le prospettive della privatizzazione più grande del mondo.

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