Londra, Theresa May riceve il principe saudita Mohammed bin Salman (foto LaPresse)

Londra, lo sceicco, e l'IPO del secolo

Eugenio Dacrema

La Gran Bretagna post-Brexit tra i miliardi di Riyadh e il fantasma di Wiston

La leggenda vuole che Churchill si giocò il petrolio saudita per una battuta su whisky e sigari. Quando Abdelaziz ibn Saud, fondatore della moderna Arabia Saudita, gli chiese perentoriamente di evitare di fumare e bere in sua presenza in quanto così imponevano i precetti della sua religione, il primo ministro britannico non fece una piega e rispose che, purtroppo, “è la mia religione che me li impone”. È un episodio che divide drasticamente il giudizio sul leggendario Wiston tra critici ed estimatori: chi ci vede tutta l’arroganza imperiale e razzista della Gran Bretagna ancora in profumo di Età Vittoriana, e chi vi vede l’apoteosi dell’ironia e dei principi liberali del personaggio.

 

Probabilmente c’è del vero in entrambe le visioni. Ma poco importa. Perché oggi, a pochi giorni dalla visita del principe ereditario saudita Mohammed Bin Salman a Londra, di quella Gran Bretagna arrogante e ironica resta solo un’immagine sbiadita. Molti giornali si sono soffermati sugli onori da capo di stato riservati al principe saudita, sulle miliardarie commesse militari (al tempo della sanguinosa guerra in Yemen), e sulle promesse di investimenti che paiono aver fatto dimenticare al governo inglese qualunque serio riferimento a diritti umani e crimini di guerra. Alcuni hanno anche fatto notare come insieme a questo grappolo di commesse e investimenti miliardari, per adesso solo promesso ma comunque irresistibile per un paese alle prese col pantano della Brexit, i colloqui si siano soffermati anche sulla questione della quotazione in borsa di Saudi Aramco, la compagnia petrolifera nazionale saudita (e la più grande del mondo). Un punto su cui ci si è soffermati poco, ma che vale la pena guardare più da vicino perché potrebbe contenere informazioni importanti sulle future traiettorie dell’economia britannica e dei suoi rapporti con le potenze emergenti.

 

Sin dall’inizio della sua scalata al potere, il giovane MBS, la sigla con cui Bin Salman è noto alle cronache, ha infatti immediatamente dichiarato la sua intenzione di vendere il 5% della compagnia sul mercato internazionale al fine di ottenere i fondi necessari a portare avanti le sue ambiziose riforme economiche. L’offerta pubblica di Aramco ammonterebbe ad oggi alla più grande IPO della storia e, ovviamente, necessita di istituzioni borsistiche all’avanguardia e altamente capitalizzate che solo poche città al mondo possono offrire. Mentre per molti mesi New York è sembrata la location favorita, negli ultimi tempi l’ipotesi Londra si è fatta strada. La City, che dopo la Brexit teme di perdere numerose posizioni come piazza internazionale, vede nell’acquisizione della IPO del secolo un’occasione unica per rilanciare il proprio ruolo e la propria immagine lontano dall’Europa e verso i nuovi mercati emergenti (oltre che generare miliardi di dollari di proventi per l’intero indotto finanziario). Il corteggiamento britannico alla corte di Riyadh si è fatto così asfissiante. Dismessi definitivamente i sigari e gli alcolici amati dal suo predecessore, Theresa May si è recata con una delegazione apposita a Riyadh già nel novembre scorso, e delegazioni della City hanno ripreso il corteggiamento durante la recente visita del rampollo saudita, decisi a rendere quella di Londra un’offerta che Riyadh non può rifiutare. 

 

Però.. c’è un però: c’è il problema che, in teoria, questa IPO a Londra, semplicemente, non si potrebbe fare. Londra è infatti nota, e rispettata, nel mondo finanziario per le sue regole stringenti sulla gestione della compagnie quotate sui suoi listini. Fra queste regole ce n’è una cruciale: una compagnia statale che fa una offerta pubblica nella capitale britannica deve mettere sul mercato almeno il 25% delle proprie azioni, questo per evitare un controllo eccessivo da parte di un solo azionista (in questo caso lo stato saudita). I promotori della campagna pro-Londra hanno subito affermato che la regola può essere cambiata, creando una deroga ad-hoc per conglomerati come Aramco. Molti però vedono nel piano come il primo passo verso una deregolamentazione del sistema finanziario britannico, in un disperato tentativo di mantenere la propria competitività una volta privato dell’accesso privilegiato al mercato europeo. Un atto che equivarrebbe alla svendita di una reputazione di serietà accumulata in decenni (se non in secoli) nel nome di guadagni momentanei e di pressioni straniere. A questo proposito han voluto vederci chiaro Nicky Morgan e Rachel Reeves, le due presidenti della Commissione del Parlamento inglese su Affari, Energia, e Strategia Industriale che in una lettera inviata al capo della FCA, l’organo di vigilanza finanziaria che per primo ha proposto le modifiche al regolamento, hanno chiesto conto delle pressioni straniere alla base della richiesta senza, finora, ricevere risposta. Non che ai più una risposta sia necessaria. Pressioni e influenze straniere per la richiesta di modifica sono infatti evidenti, e la vera domanda è semmai quanto valga la reputazione della finanza inglese rispetto alle necessità del tempo presente. La IPO del secolo potrebbe infatti trasformarsi in una sorta di prova generale della finanza britannica post-Brexit, magari più tendente a un mercato più deregolamentato e più vicino ai gusti delle nuove, e autocratiche, economie emergenti.  

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