Ecco l'impatto economico-ideologico di provvedimenti anti industria

Marco Fortis

Tutti i motivi per cui un paese che vive di internazionalizzazione e competizione mondiale non si meritava il dl “dignità”

Al di là dell’impatto che il decreto dignità, trasformato in legge, avrà, nei fatti, sul mercato del lavoro e sull’economia, un oggettivo risultato politico e ideologico esso lo ha sicuramente già raggiunto: quello di sollevare un’ondata di sentimento anti impresa come non si vedeva da tempo, come di recente denunciato da imprenditori e industriali anche su questo giornale.

  

Le imprese italiane sono state additate dai propugnatori del Decreto, tramite numerosi interventi sulla stampa e in trasmissioni radiofoniche e televisive, come entità rivolte al puro conseguimento di extra-profitti a beneficio di pochi e a danni di molti, creatrici di lavoro precario, protagoniste di delocalizzazioni sfrenate, ecc. Insomma, tutto un rispolverato armamentario di accuse non dissimili da quelle di certa vecchia estrema sinistra.

  

Accuse che però non trovano alcun riscontro in una economia come quella del nostro Paese dove le imprese sono per la maggior parte piccole e medie aziende nelle quali il rapporto tra imprenditori e dipendenti è in genere assai stretto e l’impresa stessa è quasi sempre molto calata nella dimensione socio-economica del proprio territorio o distretto industriale, anche con attività di beneficenza, mecenatismo, assistenza sociale.

  

In alcuni nostri precedenti articoli abbiamo già ampiamente dimostrato che, nonostante il polverone mediatico sul lavoro precario, in realtà in Italia l’occupazione a termine costituisce una percentuale minima del numero dei dipendenti totali, inferiore a quella che si registra in quasi tutti gli altri più importanti paesi dell’Eurozona ad eccezione della Germania in cui la percentuale è più bassa della nostra. Inoltre, in numeri assoluti i lavoratori a termine sono in Italia molti di meno che in Francia, Spagna e Germania. Dunque, a parte le più che giustificate levate di scudi a favore dei diritti dei rider o contro la piaga del caporalato, sulla precarietà è stato fatto tanto rumore per nulla, visto che i numeri del lavoro a termine nel nostro paese sono tutto sommato contenuti e fisiologicamente in crescita in settori a loro volta in forte espansione e con spiccate caratteristiche di stagionalità.

 

In questo articolo dimostreremo che anche il tema della delocalizzazione, che il decreto Dignità si prefigge enfaticamente di contrastare, rappresenta un aspetto abbastanza marginale della nostra realtà produttiva, specie rispetto agli altri maggiori paesi europei, dove la delocalizzazione è stata ben più forte e le attività manifatturiere sono state in gran parte rimpiazzate da attività di trading. Lo faremo analizzando i dati Eurostat di export di prodotto di alcuni Paesi ripartiti per tipologia di operatori all’esportazione. Dati che rappresentano con buona approssimazione quanta parte dell’export è realizzata effettivamente da imprese industriali e non da operatori commerciali o di altra natura, come nel caso in cui le attività produttive sul territorio nazionale sono state chiuse o sostituite da puro business di trading o logistica.

  

Anche in Italia, specie tra la fine degli anni Novanta del secolo scorso e i primi anni Duemila, vi sono state esperienze significative di delocalizzazione, per lo più di attività a debole valore aggiunto non più sostenibili a fronte della concorrenza dei nuovi paesi emergenti a basso costo del lavoro. Ma negli anni recenti il fenomeno della delocalizzazione è stato da noi piuttosto contenuto ed è apparso in via di esaurimento. Quasi sempre i più importanti investimenti in nuova capacità produttiva all’estero non sono andati a sostituire produzioni nazionali ma ad accrescere la capacità delle nostre imprese di aggredire e di servire mercati nuovi e lontani. Inoltre, vi sono stati negli ultimi anni molti casi di “rilocalizzazione”, cioè di aziende che hanno riportato in Italia alcune produzioni precedentemente delocalizzate. Mentre molte grandi imprese straniere sono venute ad investire da noi, come nel caso dell’industria farmaceutica.

   

Accusare l’industria italiana di delocalizzazione selvaggia è indubbiamente un falso storico. Si può ben dire, infatti, che l’Italia è, tra i grandi paesi europei, quello in cui la maggior parte dell’export è realizzato da imprese industriali del proprio settore di riferimento con produzioni basate sul territorio italiano. Prendiamo, ad esempio, tre significativi casi settoriali del made in Italy: tessile-abbigliamento-pelletteria-calzature; mobili; meccanica. Nel settore della moda l’export italiano di prodotti tessili del 2016 è stato realizzato per il 78 per cento da imprese del settore tessile, contro solo il 53 per cento della Germania o il 48 per cento dei Paesi Bassi. Il divario tra noi e gli altri maggiori Paesi dell’Ue si accentua ulteriormente nel caso dell’abbigliamento e della pelletteria-calzature. Nel primo caso il 59 per cento del nostro export è effettuato da imprese dell’abbigliamento contro soltanto il 23 per cento della Germania, il 14 per cento della Francia, il 7 per cento della Spagna fino ad arrivare all’1 per cento dei Paesi Bassi. Nel caso della concia-pelletteria-calzature invece il 73 per cento dell’export italiano è realizzato da imprese di tale settore contro solo il 38 per cento della Spagna, il 22 per cento della Francia, fino ad arrivare nuovamente ad una percentuale irrisoria del 4 per cento nel caso dei Paesi Bassi. Per fare un esempio, in Italia su un totale di 19,1 miliardi di euro di export di abbigliamento ben 9,7 miliardi sono esportati dall’industria dell’abbigliamento, che salgono a 11,2 miliardi conteggiando anche gli apporti del tessile e della pelletteria. In Spagna, invece, le industrie del tessile-abbigliamento-pelli-calzature esportano complessivamente solo 746 milioni di euro di abbigliamento mentre il commercio, sulla base di produzioni quasi totalmente estere, ne effettua ben 10,4 miliardi.

  

A voler proprio abbracciare l’ideologia populista-pauperista oggi di moda, si può dunque affermare che la Spagna avrebbe ben più bisogno dell’Italia di un decreto dignità contro le delocalizzazioni e i profitti di pochi ai danni di molti… La situazione è molto simile nel settore dei mobili. Infatti, il 76 per cento dell’export di mobili è realizzato in Italia effettivamente dall’industria dei mobili, contro solo il 52 per cento nel caso della Germania, il 43 per cento della Spagna e il 31 per cento della Francia. Ed anche nella meccanica non elettronica l’Italia ugualmente straccia tutti per percentuale di export realizzata dalla propria industria meccanica, pari al 72 per cento, davanti alla Germania con il 61 per cento (la cui meccanica è dunque sempre meno made in Germany di quanto si creda), alla Francia con il 51 per cento e alla Spagna con il 48 per cento. I numeri parlano chiaro. Come nel caso della precarietà del lavoro, anche nel caso delle delocalizzazioni non ha senso infierire in modo ideologico contro l’impresa italiana che, casomai, è una “mosca bianca” positiva nel contesto europeo, sia per il limitato ricorso all’occupazione a termine sia per l’alta percentuale di produzione manifatturiera realizzata sul suolo nazionale e poi esportata. In un mondo sempre più globalizzato ed interconnesso una economia aperta come quella italiana non ha alcun interesse a “punire” le imprese nazionali che si internazionalizzano e quelle estere che investono da noi.

  

Secondo l’Istat in base a dati del 2015 in Italia risultano attive 14.007 imprese a controllo estero che occupano 1,3 milioni di addetti. Al netto delle attività finanziarie e assicurative, le multinazionali estere fatturano in Italia quasi 530 miliardi di euro, conseguono un valore aggiunto di 104 miliardi di euro, realizzano oltre 12 miliardi di investimenti ed effettuano una spesa in Ricerca e sviluppo di oltre 3 miliardi di euro. A loro volta le multinazionali italiane confermano la loro diffusa presenza all’estero con 22.796 controllate, 1,8 milioni di addetti e oltre 544 miliardi di euro di fatturato. In definitiva, per essere più moderna e competitiva l’Italia di oggi avrebbe più bisogno di aiutare l’impresa anziché demonizzarla ed ostacolarla. Ed avrebbe soprattutto necessità di più dignità nella burocrazia, nei tempi della giustizia, nei servizi pubblici e sociali, nel riequilibrio dei conti pubblici e delle disparità generazionali, nella realizzazione di infrastrutture al passo con i tempi e nella riduzione del divario nord-sud. E’ qui che ci sarebbe effettivamente più bisogno di politica ma è purtroppo proprio qui dove la politica continua a non dare risposte.

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