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La retorica scivolosa del protezionismo

Chicco Testa

L’Italia consuma più olio ma non ne produce di più. Ipocrisie politiche e paura di innovare

L’olio italiano, è noto, è il migliore del mondo. Italiano? Cominciamo dai numeri, i maledetti numeri che non mentono. Gli italiani consumano circa 600.000 tonnellate di olio d’oliva. L’Italia inoltre ne esporta, come olio italiano, altri 400.000. Totale 1 milione di tonnellate. Quanto è la produzione nazionale? Naturalmente dipende dagli anni, dal clima, dalle piogge, dai parassiti, ma normalmente intorno a poco più di 400.000 tonnellate. Risultato: da dove vengono quelle 600.000 tonnellate che mancano all’appello? Semplice, le importiamo. Soprattutto dalla Spagna, ma anche dalla Grecia, dalla Tunisia, dal Marocco. Lo importiamo, lo lavoriamo, lo mescoliamo e lo esportiamo come olio italiano. E anche lo consumiamo internamente, pensando che sia italiano, mentre invece non lo è.

 

Sia chiaro: le olive spagnole, greche o di altre parti del Mediterraneo sono altrettanto buone di quelle italiane e noi siamo conosciuti soprattutto per la capacità di costruire blend ben mescolati e più in generale per lavorare le olive come si deve. I produttori strettamente italiani protestano, vorrebbero vincoli più stringenti, ma business is business e cosa sia made in Italy è concetto difficile da definire. Vale per le olive, ma anche per l’abbigliamento e molti altri settori. Proibiamo per esempio la soia ogm, ma nutriamo i nostri animali, quelli da cui derivano produzioni tipiche come il parmigiano reggiano o il prosciutto di Parma con soia ogm tutta di importazione. E ci mancherebbe altro che non fosse così.

 

Ma quel che interessa rimarcare qui sono un paio di cose.

 

La prima ha a che fare con l’ipocrisia. Si respingono i trattati internazionali sul libero commercio, si chiedono misure protezionistiche in nome della “qualità” italiana e delle sue magnifiche tipicità locali, ma le barriere dovrebbero secondo alcuni, prima fra tutti la Coldiretti, funzionare a senso unico. Noi importiamo olive greche, ma voi non potete affacciarvi sul mercato italiano. E se ci venite dovete denunciare la nazionalità delle vostre olive. Cosa che noi non facciamo. In nome della qualità. E’ bello, insomma, fare i protezionisti con le olive degli altri.

 

La seconda. Da che cosa deriva il deficit di cui abbiamo dato conto all’inizio? Da due fattori. I consumi di olio, prima di tutto, sono in aumento. In Italia ma soprattutto all’estero dove altri condimenti sono ancora largamente predominanti e i consumi pro capite una frazione di quelli italiani. L’olio di oliva rappresenta oggi solo l’1,7 per cento del consumo totale di grassi nel mondo, ma il consumo cresce di circa il 3 per cento l’anno. I consumi pro capite sono di circa 420 grammi contro i 10 kg a testa dei consumatori dei paesi con tradizioni consolidate. C’è quindi ancora un largo spazio di crescita, viste le qualità intrinseche dell’olio di oliva.

 

Ma quella più importante è la mancanza di innovazione che riguarda l’olivicoltura italiana. Gli olivi toscani, liguri o pugliesi, la Puglia è di gran lunga il primo produttore, sono belli da vedere, imbelliscono il paesaggio, ma quanto a capacità produttiva lasciano a desiderare. La Spagna ha conquistato la leadership attraverso colture intensive di migliaia di ettari e un costante miglioramento genetico. Inoltre si tratta di solito di proprietà estremamente frazionate, in terreni aspri e difficili da coltivare. Ma l’innovazione viene contrastata, indovinate da chi, in nome della tradizione e della piccola proprietà agricola. Magari condita con la favoletta del km zero e dell’autoconsumo.

 

Solo che nel frattempo l’olio ha seguìto la stessa strada di tutta l’industria alimentare strutturandosi in grandi aziende multinazionali. Molti brand tradizionali italiani sono oggi proprietà di queste aziende non italiane, alcune delle quali, come avviene in altri settori alimentari, non possiedono un ettaro di terreno, ma fanno bene il loro mestiere di trasformatori e distributori. Altri paesi insospettati come l’Australia, la California, Il Sudamerica, la stessa Cina stanno entrando nel mercato con coltivazioni moderne e acquisiscono quote di mercato sempre maggiori.

 

In Italia per questa e per altre coltivazioni sembra che la quantità sia nemica della qualità. Affermazione senza senso e se non ci diamo da fare il mercato sarà coperto da altri. Che fra l’altro spesso garantiscono anche una qualità maggiore del prodotto, proprio grazie all’industrializzazione dei processi e al controllo di tutta la filiera di trasformazione e conservazione. L’olio del contadino talvolta è come il vino del contadino, una volta quasi imbevibile. Poi per fortuna sono arrivate le cantine moderne e il vino italiano è decollato.

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