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Non esistono “cattivi lavori” se l'azione politica riesce a nobilitarli. Occuparsi dei servizi

Giorgio Gori, sindaco di Bergamo

I salari dei molti lavoratori pagati troppo poco devono diventare una priorità per il Pd. Il problema è la bassa produttività, ma una soluzione c’è: salario minimo

Al direttore - La questione dei salari – dei molti lavoratori pagati troppo poco – deve diventare una priorità per il Pd. Puntare su innovazione e formazione è fondamentale, ma non sufficiente: a difesa dei diritti dei lavoratori serve la politica.

 

Se in Italia i salari sono cresciuti nettamente meno che in altri paesi (solo del 6,3 per cento in vent’anni) è certamente a causa della modesta crescita della produttività (più 5,8 nello stesso periodo, un quinto di Francia, Germania e Regno Unito, per non parlare degli Stati Uniti). Sappiamo che qui si richiedono maggiori investimenti e innalzamento delle competenze. Ma la bassa produttività non è l’unica ragione. A partire dalla metà degli anni Settanta si è registrato uno sbilanciamento nella distribuzione del valore aggiunto tra profitti e salari, con una flessione del 15 per cento della quota di reddito destinata ai salari.

 

Esiste poi una terza spiegazione, che non riguarda solo il nostro paese: il trade-off tra posti di lavoro persi negli anni della crisi e posti di lavoro creati negli anni della ripresa è stato tendenzialmente peggiorativo in termini contrattuali e retributivi.

 

Tra il 2008 e il 2017 in Italia si sono persi 895 mila posti di lavoro nell’industria e nelle costruzioni, e si sono guadagnati 810 mila occupati nei servizi, soprattutto in tre settori: alberghi e ristorazione, servizi socio-sanitari e servizi alle famiglie: posti di lavoro mediamente peggiori, e peggio pagati, di quelli andati perduti negli anni precedenti.

 

Un recente studio della Federal Reserve Bank di New York, firmato da Richard Florida, Todd Gabe e Jaison R. Abel, inquadra chiaramente il problema: “Le professioni della conoscenza ben retribuite occupano solo un terzo della forza lavoro, e solo il 5 o il 6 per cento degli americani opera nei settori della manifattura. Anche con un tasso la disoccupazione inferiore al 4 per cento, più di 65 milioni di americani – quasi la metà dell’intera forza lavoro – svolgono lavori pagati poco in campi come i servizi di ristorazione, il commercio e i servizi sanitari e alla persona”.

 

Lo studio è stato condotto tra il 2011 e il 2017 monitorando l’evoluzione della condizione professionale di un ampio campione di lavoratori occupati in attività caratterizzate da basso salario, per scoprire che “solo una piccola percentuale di questi (il 5,2 per cento) ha effettive opportunità di veder migliorare il proprio salario e la propria vita, con più probabilità di restare disoccupati che di salire la scala sociale”.

 

Tra i fattori che rendono difficile il miglioramento delle condizioni dei lavoratori impegnati in “bad jobs”, uno dei più importanti – insieme all’età – è ovviamente l’istruzione: un diploma o un titolo di studio più elevato aumentano sensibilmente la probabilità di trovare un lavoro migliore. Istruzione e sviluppo delle competenze non sono però sufficienti – sostengono i tre economisti – per risolvere il problema americano dei lavori pagati troppo poco. Serve la politica.

 

In passato molti lavori nell’industria manifatturiera non si potevano certo definire “buoni lavori”. Lo sono però diventati, grazie al diritto del lavoro e alle conquiste del movimento sindacale.

 

Non è dunque detto che i posti di lavoro nei servizi siano condannati a essere per sempre mal retribuiti. Com’è accaduto per il lavoro manifatturiero, anch’essi possono essere oggetto di progressivo miglioramento. Le imprese che implementano una strategia di “buoni posti di lavoro”, pagando di più i lavoratori e coinvolgendoli maggiormente, vedono spesso una combinazione di più alta produttività e miglior servizio alla clientela, che porta a maggiori profitti.

 

“Una strada sottovalutata per ricostruire una classe media in America – concludono i tre economisti – è quella di trasformare milioni e milioni di posti di lavoro a bassa retribuzione in occupazioni migliori e pagate di più”.

 

E’ un obiettivo che dobbiamo perseguire anche in Italia. I lavori a basso valore aggiunto sono molti, e sono quelli per i quali è più difficile immaginare un aumento della produttività e quindi dei salari (anche se è ovviamente auspicabile che l’innovazione possa intervenire positivamente anche in questi mercati). Possiamo immaginare che le stesse imprese alla lunga si pongano il problema di sostenere la domanda interna attraverso un aumento dei salari e del potere d’acquisto diffuso, ma nel frattempo è la politica che si deve muovere.

 

La soluzione numero uno è l’introduzione del salario minimo universale, recentemente proposto dal Partito democratico, il cui scopo è quello di proteggere le categorie escluse dalla contrattazione nazionale, i cosiddetti working poors. Si tratta di una misura da determinare con attenzione, evitando di fissarne l’importo ad un livello troppo alto (com’era probabilmente quello proposto da Matteo Renzi, pari all’80 per cento del salario mediano), poiché questo porterebbe ad un aumento della disoccupazione e del sommerso, e che andrebbe accompagnato con una riduzione del prelievo fiscale, alzando l’asticella della no tax area o riducendo la tassazione di voucher e strumenti simili. E’ vero che la contrattazione nazionale garantisce un salario superiore, ma solo a chi ne è effettivamente coperto.

 

Sul salario minimo si è scontata fin qui una forte resistenza, legata agli squilibri Nord-sud e alla conseguente difficoltà di stabilire un salario minimo orario che vada bene sia a Milano che a Ragusa, su cui si innesta il rifiuto di uno standard determinato in relazione al costo della vita. Io penso che questo scoglio debba essere superato con decisione.

 

Per altri, a fronte di un livello di copertura della contrattazione collettiva pari all’85 per cento, sarebbe preferibile concentrarsi sulla contrattazione aziendale e territoriale. Difficile però immaginare che si tratti di scelte necessariamente alternative. Lo spazio della contrattazione decentrata è senz’altro quello che più consente di allineare obiettivi di innalzamento della produttività e dei salari, anche azienda per azienda; quanto però ai “bad jobs”, la somma dei lavoratori esclusi dalla contrattazione collettiva nazionale, più quelli formalmente coperti ma in realtà pagati meno di quanto previsto dai contratti, più i finti lavoratori autonomi, arriva oltre i due milioni. Mi pare basti per imporre il tema tra le nostre priorità.

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