Mauro Moretti. Foto LaPresse

La rivincita di Moretti

Annalisa Chirico

L’acquisizione di Italo, la crescita italiana e il pericolo Lega-M5s. Le ricette dell’ex ad di Fs e Leonardo per rinnovare il paese. Con postilla su media e giustizia

Carrozze, convogli, locomotive. Mauro Moretti ci dà appuntamento presso la sede della Fondazione delle Ferrovie italiane, le strade ferrate hanno solcato i quarant’anni della sua carriera di ingegnere e top manager, sindacalista e dirigente, specializzato nelle trattative, da una parte e dall’altra del tavolo. “I treni sono la mia vita – dice l’ex numero uno di Ferrovie dello stato a colloquio con il Foglio – Quando qualcuno m’interroga sui motivi della mia passione, domando: che cosa sarebbe oggigiorno l’Italia senza l’alta velocità?”. Nell’eloquio spiccio di questo signore riminese, sessantaquattro anni all’anagrafe, capelli ricci e due sopracciglia folte e ispide che t’ispezionano con cenni fugaci e implacabili, nel suo accento romagnolo, nelle linee verticali e orizzontali che tratteggia con piglio severo sul foglio di carta davanti a sé, affiora irrefrenabile il desiderio di futuro.

  

“I treni sono la mia vita. A chi mi chiede perché e mi critica domando: che cosa sarebbe oggi l’Italia senza Alta velocità?” 

“Sa perché mi sveglio alle sei del mattino da una vita intera?”, domanda lui senza tanti convenevoli. Non ne ho idea, ingegnere, lo faceva pure da bambino? “Da sempre. Il motivo è che vengo da una famiglia povera, ho conosciuto la fame, quella vera, che ti morde la bocca dello stomaco. Mia madre faceva la domestica, si svegliava all’alba e cominciava il giro degli appartamenti. Io la accompagnavo per aiutarla nella pulizia di pavimenti e scale. Il nostro era un modello primordiale di economia integrata, in voga nell’Italia del Dopoguerra. Vivevamo in campagna, oltre la finestra lo sguardo si perdeva tra i campi sterminati con l’azzurra San Marino in lontananza. Nonostante le asperità del presente, nutrivamo immensa fiducia nel futuro. Si respirava slancio, voglia di fare, anche a costo di correre qualche rischio. Oggi invece nessuno sembra disposto ad assumersi responsabilità. Siamo diventati il paese delle cento città, dei mille campanili e delle mille fabbrichette: non crediamo più in noi stessi e guardiamo all’avvenire sovrastati dal senso di paura”. Moretti corre più veloce di un treno. Premiamo il tasto rewind, riavvolgiamo il nastro, altrimenti tocca parlare subito di Leonardo, la sua ultimissima esperienza manageriale (pochi giorni fa è stato presentato il piano industriale 2018-2022, il commento diffuso è che la crescita non decolla, l’ennesimo tonfo in Borsa ne sarebbe la prova).

  

Lo scorso anno Moretti ha ceduto il testimone a un nuovo amministratore delegato, Alessandro Profumo, uomo di finanza alle prese con l’industria pesante. “Gli investitori vogliono certezze e visione. Da azionista del gruppo, i cattivi risultati non mi rallegrano. Devo dire però che, se mi chiedessero di fare il medico, io non accetterei. Profumo ha voluto tentare”. Moretti è un tipo ruvido, non si esercita in estenuanti circonlocuzioni, va dritto al punto. “Vede quella bottiglia? E’ l’olio che produco nella mia tenuta di campagna. Nei weekend, quando posso, mi ritiro lì, mi dedico all’orto e riscopro le origini contadine. Alzando lo sguardo scorgo il profilo del Soratte”, il monte nel mezzo della Valle del Tevere che ispirava già Orazio, vides ut alta stet nive candidum… Così però si va fuori tema. Accantoniamo le bucoliche laziali, torniamo all’ingegner Moretti. L’ingresso nel mondo della locomotiva è datato 1977, quando viene assunto, a ventiquattro anni, come quadro all’Officina trazione elettrica di Bologna. “Ero fresco di laurea in Ingegneria elettronica e vinsi il concorso. Fu una formidabile palestra, in quella sede erano impiegate trecento persone, compresi assai presto che per contare dovevo esercitare una leadership, dote che non si apprende nei master, va esercitata sul campo”. Ha la fama del dominus accentratore, intransigente e stacanovista. “I miei collaboratori, anche a distanza di anni, mi testimoniano affetto. Qualcuno mi descrive come un capo temerario, ma io sono semplicemente uno che comanda. Quando mi reclutano in un’azienda, lavoro e ottengo risultati, a differenza di altri non scaldo la poltrona in attesa di quella successiva”. In effetti, i numeri sono dalla sua parte. Già presidente di Rete ferroviaria italiana, nel 2006 Moretti è chiamato a capo di Ferrovie dello stato. Si ritrova al vertice di un carrozzone che perde 1,3 miliardi di euro, nel 2013 consegue il quinto bilancio in utile, con 450 milioni di profitti e una crescita di oltre il venti per cento rispetto all’esercizio 2012. Le Ferrovie rischiavano di fare la fine di Alitalia, il manager le sottrae al destino di un fallimento assicurato, attirandosi diverse antipatie. I pendolari lo accusano di aver curato soltanto la clientela ricca della tratta Milano-Roma a 300 km orari; i ferrovieri si sentono traditi per il passaggio al macchinista unico, osteggiato dai sindacati di categoria; i passeggeri mal digeriscono gli aumenti tariffari. Moretti procede per la sua strada, affronta a muso duro le resistenze corporative, il tavolo delle trattative è il suo habitat naturale sin da quando Luciano Lama gli chiese di fare il sindacalista nei ranghi della Cgil.

  

“Il paese ha bisogno di competitività. Bene il Jobs Act, ma non basta: bisogna attrarre investimenti su difesa e sicurezza” 

Qualcuno ancora trema al ricordo di quando nel 2008, nel giro di dodici mesi, Moretti dispose il licenziamento di trentacinque impiegati per gravi violazioni degli obblighi contrattuali. O quella volta che mandò a casa otto operai genovesi che si facevano timbrare il tesserino da un collega. Ha fatto storia la famigerata “cura Moretti”: addio a stuoli di consulenti blasonati e strapagati, il sontuoso palazzo Litta a Milano (costo quattro milioni all’anno) viene messo in vendita, le auto blu di Villa Patrizia e le sedi in affitto escono decimate. “Ho fatto quel che serviva – spiega il manager – A volte ci sono decisioni difficili alle quali non possiamo sottrarci, altrimenti tutto va alla deriva. Proverei vergogna se qualcuno mi criticasse per non aver fatto. Chi polemizza contro di me per ciò che ho fatto, mi offre una medaglia da appuntarmi al petto. Io sono un industriale, è mio dovere perseguire il bene dell’azienda”. Da numero uno delle Ferrovie, deve affrontare la liberalizzazione del settore Alta velocità con l’ingresso di un nuovo player, Ntv, la società di Montezemolo e Della Valle, fresca di acquisizione da parte di un fondo d’investimento statunitense. All’epoca, Moretti osteggia l’arrivo del nuovo operatore, Montezemolo e soci lo accusano di aver frapposto ostacoli al progetto dei treni Italo. “Ntv era un competitor, e quelle accuse provenivano da una parte interessata. I ricorsi alle varie autorità non ebbero successo. Semmai, all’inizio, i fondatori di Ntv scontarono la loro inesperienza nel settore al punto che furono poi costretti a cambiare il modello di business per conseguire qualche miglioramento”. I treni Italo sono un gioiello italiano che finisce in mani straniere? “Se vuoi stare nel libero mercato, devi accettare le regole del gioco. Se dall’estero acquisiscono le nostre aziende, è un fatto positivo, il problema è che noi non facciamo altrettanto, non disponiamo di strumenti finanziari adeguati alle nuove sfide. In Francia esistono numerosi fondi d’investimento, quello sovrano della Norvegia è il fondo pensione più ricco con partecipazioni in circa novemila società a livello globale. A mio parere, l’Italia non rischia la desertificazione industriale ma deve fare i conti con un dato preoccupante: non esistono più grandi imprese private, sopravvivono soltanto quelle controllate dallo stato direttamente o attraverso la Cassa depositi e prestiti. Fiat non è più italiana non soltanto per il trasferimento dei suoi headquarters all’estero, ma anche perché i suoi impianti industriali non si trovano più nel nostro paese. Un futuro analogo si profila per Luxottica. Il ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda ha il merito di aver lanciato Industria 4.0 che insieme al piano di ammortamenti ha ridato fiato alle nostre aziende. In Germania però ne parlano da almeno sette anni, scontiamo un vistoso ritardo”.

  

Ferrovie dello stato poteva finire come Alitalia, è tornata in alto. “Se mi reclutano in un’azienda, lavoro e ottengo risultati” 

Viviamo giorni di campagna elettorale, viene naturale chiedere a Moretti se vuole dare qualche suggerimento alle forze politiche in campo? “Le promesse si sprecano ma nessuno si confronta sulle ricette volte a ridare competitività al sistema paese. Esiste il rischio di un ritorno al voto se non si formerà una maggioranza di governo. Io andrò a votare, come sempre. Questo poi è un appuntamento particolarmente importante”. In che senso? “L’Italia si gioca una partita decisiva nello scacchiere geopolitico mondiale. Gli Stati Uniti sono alle prese con la terza ‘offset strategy’, la strategia di compensazione per riaffermare il dominio a stelle e strisce nei settori chiavi dell’intelligenza artificiale e della robotica. Nell’èra della globalizzazione e dell’Ict, con Washington che rischia il sorpasso cinese e chiede agli alleati un maggiore impegno militare, l’Europa deve esprimere una leadership e una visione nuove. L’alleanza franco-tedesca risponde a tale obiettivo. Se l’Italia non vuole essere tagliata fuori, deve partecipare alla rifondazione europea. Un governo con il M5s o con la Lega disegnerebbe uno scenario devastante”. Si discute molto di priorità dell’agenda politica. “Il paese ha bisogno di competitività – dice Moretti – Il Jobs Act, voluto da Matteo Renzi, ha fatto bene all’economia ma non basta per recuperare il gap con il resto del mondo. In primo luogo è necessario attrarre investimenti per grandi imprese italiane nel settore trainante della difesa e della sicurezza, inclusa la versione cyber. E poi servono progetti infrastrutturali che non riguardino soltanto strade, ponti e satelliti ma anche sanità, istruzione e persino attrezzature sportive. Un paese che vuole competere nel mondo contemporaneo deve saper attrarre due patrimoni: soldi e giovani. Gli investitori internazionali inseguono gli under 35 che inventano e hanno voglia di divertirsi. La rinascita di Berlino è avvenuta così, il miracolo potrebbe replicarsi pure a Roma. Se invece noi diciamo no alle Olimpiadi e a qualunque iniziativa che possa intaccare lo status quo, ci condanniamo a un eterno passato. Nella capitale si contano almeno cinquanta siti che potrebbero essere riqualificati”. Sulle opere, grandi o piccole, aleggia lo spettro della corruzione: se circolano appalti e denari, qualcuno potrebbe approfittarne. “E’ una logica paralizzante. Il presidente dell’Anac Raffaele Cantone è un galantuomo, ma un paese che deve dipendere dai suoi pronunciamenti è pura follia. Abbiamo prodotto un sistema di gestione degli appalti iperburocratizzato, senza eguali nel mondo. Siamo arrivati al paradosso di appesantire le direttive europee di vincoli che neppure l’Europa ci impone. I funzionari statali sono considerati presunti furfanti, in Parlamento vige un principio di legificazione secondo il quale servirebbero leggi a prova di ladro, perciò inapplicabili. La parola ‘discrezionalità’, lungi dall’essere sinonimo di corruzione, indica la capacità di adattare una risoluzione al singolo caso con una giusta dose di flessibilità. La maggior parte delle aziende italiane tende al piccolo, si tratta perlopiù di realtà sottocapitalizzate. Il campo nel quale gli italiani eccellono è la creatività. Se non sfruttiamo questo vantaggio competitivo, perderemo peso economico e politico”.

  

Inevitabile, nel corso della chiacchierata con Moretti, toccare un tema che lui non ama affrontare. Lo scorso anno è stato condannato in primo grado a sette anni di reclusione per disastro ferroviario e omicidio colposo plurimo: i fatti sono quelli della strage di Viareggio che il 29 giugno 2009 costò la vita a trentadue persone. La sentenza ha condizionato la scelta sul suo mancato rinnovo ai vertici di Leonardo. “Non è un mistero, così com’è pacifico che quel verdetto abbia risentito del clima mediatico attorno a una vicenda drammatica. Mi lasci precisare però che, al momento della mia possibile riconferma, io risultavo perfettamente compliant con i requisiti previsti dalle leggi vigenti. Tuttavia, in un incontro un po’ imbarazzato, il premier Paolo Gentiloni mi spiegò che l’opportunità politica richiedeva la mia uscita. Per il resto, il mio silenzio è un segno di rispetto verso le vittime e i loro famigliari. Sono chiamato a difendermi in aula, non sulla pubblica piazza, da imputazioni gravissime con riferimento agli anni in cui guidavo Rfi. Se mi consente la similitudine, è come se il gestore della rete autostradale dovesse rispondere di un guasto al sistema frenante di un’autovettura. Confido nel giudizio d’appello che si aprirà non so quando. Attendiamo che le motivazioni, pubblicate a luglio, siano tradotte in lingua tedesca. Nella giustizia italiana capita anche questo”. Difficile provare meraviglia nel paese dove il Consiglio di stato vieta al Politecnico di Milano di tenere corsi esclusivamente in lingua inglese, e dove un ministro della Cultura non può nominare i direttori dei musei senza incappare nei veti dei giudici amministrativi. “Sono casi emblematici dell’impazzimento collettivo. A queste condizioni, chi sarà disposto a investire in Italia?”.

  

“Italo? Se dall’estero acquisiscono le nostre aziende, è un fatto positivo, il problema è che noi non facciamo altrettanto”

Nei tre anni alla guida di Finmeccanica, Moretti ha cambiato il volto della società, non solo il nome. “Ho trasformato il gruppo in una one company con un core business definito nell’aerospazio, difesa e sicurezza. Ho tagliato le attività non-core, spesso costituite da aziende in perdita, tenute in vita con i soldi pubblici a scopo puramente clientelare, fuori da ogni logica di mercato. Ho ereditato una società che rischiava il tracollo, dove imperava una cultura servile e si perpetuavano attività dannose per il gruppo ma utili a questo o a quello stakeholder, con un portafogli gonfio di ordini tossici. In tre anni, l’ho resa una società più solida, meno spericolata e più redditizia per gli azionisti”. La riduzione strutturale del debito e la distribuzione del dividendo che non si vedeva da sei anni sono risultati tangibili. “A questo ho unito un’operazione di rebranding: Finmeccanica è diventata Leonardo. Ho scelto personalmente nome, logo e payoff. Ingenuity at your service, volevo un riferimento all’ingegnosità italiano. Il nome andava cambiato perché la parte ‘Fin’ non corrispondeva più alla missione aziendale, inoltre i colleghi inglesi non lo pronunciavano correttamente”. Non si può negare che sulla decisione di operare un restyling abbia influito anche l’inchiesta della procura di Busto Arsizio sulla commessa indiana di elicotteri. “Le ricadute economiche e reputazionali di quella vicenda giudiziaria sono state gravissime per la holding e per il paese intero”, commenta Moretti. A gennaio l’ex presidente di Finmeccanica, Giuseppe Orsi, e l’ex ad di AgustaWestland, Bruno Spagnolini, sono stati assolti in appello dalle accuse di corruzione internazionale. “Mi sono rallegrato con entrambi all’indomani della sentenza. Per arginare i danni di quell’inchiesta, ho introdotto una serie di misure ad hoc posizionando la società al livello B nelle classifiche sulla corruzione. La francese Dassault Aviation, per intenderci, era ferma al livello F. Eppure il loro amministratore delegato sedeva al fianco del presidente della Repubblica, noi italiani invece portavamo il marchio dell’infamia per il clamore mediatico di accuse infondate”. Congedandoci, facciamo notare al nostro interlocutore che il suo viso spesso appaia fin troppo serioso, quasi arrabbiato. “Ho la faccia dura come la roccia su cui si erge una casa stabile e sicura. Io sono e resto un industriale, affidabilità prima di tutto”.

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