Un'immagine dei fatti del giugno 2009 (foto LaPresse)

La condanna mediatica di Moretti

Redazione

Perché non si può confondere la giustizia con il risarcimento del dolore. La sentenza di primo grado del processo sulla strage di Viareggio

Il tribunale di Lucca ha condannato a sette anni l’ex amministratore delegato di Ferrovie italiane Mauro Moretti per l’incendio successivo al deragliamento del treno che causò la morte di 28 persone a Viareggio, il 29 giugno del 2009. In un clima surriscaldato dalle proteste dei parenti delle vittime, si è replicata la scelta, già verificatasi in altre occasioni, di attribuire ai vertici massimi di un’azienda assai complessa la responsabilità penale di un disastro. Dal dispositivo della sentenza si capirà come sono state determinate le catene di responsabilità concrete e specifiche, che dovrebbero essere provate in un caso di questo tipo.

 

Il fatto che la condanna, seppure assai pesante, sia di molto inferiore a quella a 16 anni richiesta dall’accusa, sembra far intendere che non tutto l’impianto accusatorio sia stato accolto. Anche questo autorizza a prevedere che nei successivi gradi di giudizio ci sarà modo per valutare in modo meno emotivo le responsabilità personali e soggettive, invece di applicare una logica extragiuridica di “responsabilità oggettiva” che pare abbia prevalso anche in questo caso. D’altra parte, se ci sono voluti più di sette anni per mettere insieme un procedimento penale, vuol dire che la materia è oggettivamente complessa, il che ha impedito all’accusa di agire in modo spedito, nonostante l’imminenza dei termini di prescrizione.

La richiesta di “giustizia” delle famiglie delle vittime è comprensibile e condivisibile, ma la giustizia non deve essere confusa con una sorta di risarcimento morale del dolore. Quando si cerca di dare questa interpretazione si esce dai cardini giuridici, il che – prima o poi – viene censurato in successivi gradi  di giudizio. Nessun sentenza “vendicativa” può lenire il lutto, e una sentenza destinata a finire nel nulla è solo un’illusione che rischia di rendere ancora più ulcerante la delusione. Ancora peggio sarebbe mettere in carcere per anni persone giudicate colpevoli solo per le funzioni che esercitavano, senza che sia provata un’effettiva responsabilità personale.

 

Anche in questo caso si avvertono i sintomi dell’avvelenamento mediatico della giurisdizione, un male oscuro che sembra incurabile (e che è stato denunciato recentemente in termini piuttosto espliciti anche nell’inaugurazione dell’anno giudiziario in Cassazione). Uno stato di diritto non può mai derogare dal principio dell’indipendenza della giustizia, anche dalla commozione per il dolore e dalla solidarietà per chi ha patito lutti e distruzioni. Quando e se si renderà la giustizia meno “popolare” ma più rigorosa, vorrà dire che si è imboccata la strada giusta, oggi ancora lontana.

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