Capitani sotto tiro

Stefano Cingolani

Sovranisti, populisti e sandinisti d’Italia hanno un solo obiettivo: scardinare le politiche globali dei grandi gruppi industriali e bancari

Sarà che tra il dire e il fare c’è di mezzo la campagna elettorale, sarà che anche in Italia si svolge una gara a chi è più “amico del popolo”, ma se prendessimo sul serio quel che si è detto prima del voto, il prossimo parlamento dovrebbe rimettere in discussione le strategie dei maggiori gruppi industriali e bancari. A cominciare, naturalmente, da quelli pubblici, anche se nel mirino non ci sono solo loro. Più o meno tutte le forze politiche che parlano di proteggere i dimenticati, i vinti, in modi e con enfasi diverse, vogliono riempire il loro carniere con prede da caccia grossa. E’ nata una improbabile quanto perniciosa alleanza tra salvinisti e sandinisti, che getta una ipoteca sulla prossima legislatura. Il loro comune denominatore è rinazionalizzare, cioè affidare di nuovo al governo un ruolo primario nelle attività economiche e, se non proprio fermare quanto meno frenare l’espansione internazionale avvenuta, in ritardo e a fatica, negli ultimi vent’anni. Le maggiori aziende italiane a partecipazione statale sono ormai tutte multinazionali e questo non va giù al nuovo fronte popolare. Così come non va giù che vengano gestite secondo una logica d’impresa. I vertici manageriali sono stati rinnovati l’anno scorso, ma i capitani non si sentono più saldi al timone e nemmeno la rotta è sicura.

 

Vogliono trasformare la Cassa depositi e prestiti nel braccio armato del governo per un ritorno in forze nella gestione dell’economia

L’unica tecnostruttura pubblica dove l’immediato futuro di uomini e cose coincide, è la Cassa depositi e prestiti. Il presidente Claudio Costamagna e l’amministratore delegato Fabio Gallia scadono tra un mese e, stando alle voci che arrivano dai palazzi del potere, non è certo che saranno riconfermati, nonostante un apprezzamento trasversale. La questione di fondo è che la Cassa sulla quale erano state riversate grandi speranze (troppe e spesso sballate) non ha trovato la ragion d’essere che piacerebbe alle nuove forze politiche. I nuovi sovranisti non hanno dubbi su quel che intendono fare: trasformare la Cdp nel braccio armato del governo per un ritorno in forze nella gestione dell’economia; lo stato che prevale di nuovo sul mercato, ideologia esplicita nella visione grillina (e di capo Beppe in primis), implicita nelle posizioni degli esperti economici dei quali si circonda Salvini, rinnegando il “partito delle partite Iva” caro a Umberto Bossi. Tanto per fare un esempio pratico e immediato, si vorrebbe far entrare la Cassa nell’Ilva con il 51 per cento, anche per questo viene gettata tutta la sabbia possibile dentro l’acciaieria presa in prestito dalla multinazionale indiana Arcelor Mittal.

 

Secondo i pentastellati, le aziende controllate dallo stato operano “in totale autonomia senza alcun controllo e senza alcun reale indirizzo politico per il raggiungimento di obiettivi di interesse nazionale. Il problema non riguarda solo i manager che cercano di perseguire l’unico interesse di profitto e di mercato dell’impresa stessa (in alcuni casi senza nemmeno riuscirci)”, ma l’azionista pubblico che dovrebbe “orientare le politiche di investimento di queste imprese”. Un governo a Cinque stelle spingerebbe le aziende pubbliche a “svolgere un ruolo fondamentale nello sviluppo del paese”, quindi non devono investire risorse “per espandersi su mercati internazionali alla ricerca del margine migliore e del profitto immediato trascurando il nostro paese“.

 

Il programma grillino punta il dito sull’Eni, che “va riportata in Italia”. Con la gestione di Descalzi il gruppo è tornato produttore

Il programma grillino punta il dito in particolare sull’Eni che “va riportata in Italia”. Crocevia di molteplici interessi internazionali, coinvolta in vecchie e non chiare vicende giudiziarie (tangenti, depistaggi e persino giochi di spie) e specchio di ancor più oscure manovre, la creatura di Enrico Mattei è particolarmente sotto tiro. Con la gestione di Claudio Descalzi il gruppo ha cambiato strategia, non è più sostanzialmente distributore, ma è tornato produttore. Esplorazione, estrazione, sono diventate le scelte fondamentali sulle quali concentrare le risorse, ottenendo importanti successi in Mozambico, in Egitto, nel mar Egeo. Proprio l’Africa e il Mediterraneo sono le aree geografiche prioritarie, zone roventi che trasformano l’Eni, accusata fin dai tempi di Mattei di condurre una politica estera parallela, in un facile bersaglio. Lo dimostra la provocazione turca: il nuovo sultano Recep Erdogan ha schierato la flotta contro le piattaforme che cercano il petrolio al largo di Cipro, una mossa che non ha trovato una risposta adeguata da parte del governo, ma nemmeno delle forze politiche italiane. L’Eni viene lasciata sola, sottoposta a un attacco giudiziario su presunte mazzette pagate in Nigeria insieme alla Shell, del quale non si conoscerà la vera consistenza se non in futuro, e indebolita dal groviglio di vipere, che emerge al suo interno, tra bugie e videotape, il cui obiettivo diventerà anch’esso più chiaro solo quando il danno sarà procurato.

 

L’Enel con Francesco Starace sta puntando sulle energie rinnovabili, ma non per questo può considerarsi al riparo dagli strali populisti. Chiudere le centrali a gasolio è una delle idee dominanti nell’ecologismo di sinistra e fa parte anche dell’economia a circolo chiuso sulla quale pontifica Grillo. L’auto elettrica sta sostituendo nell’immaginario l’auto a idrogeno o persino le piste ciclabili e un mondo tutto elettrico, pulito e automatizzato, è nello stesso tempo il sogno e l’incubo della generazione post-industriale. Il comico fattosi politico parla di energia che si rigeneri nel momento stesso in cui viene consumata, ma così non succede. L’elettricità va prodotta e le rinnovabili non sono tutto, la realtà fattuale dice che non si sfugge all’utilizzo di un mix di fonti tra le quali gli idrocarburi restano indispensabili, per non parlare del carbone persino in paesi che hanno compiuto una svolta verde come la Germania. Non solo, l’Enel stessa è un grande gruppo internazionale. E’ cominciata dunque una pressione affinché si sposti sempre più sul mercato domestico, non solo nello sviluppo delle fonti alternative, ma anche nell’infrastruttura per le telecomunicazioni (la rete a banda larga) che pure rappresenta una parte piccola del suo giro d’affari. Non viene finora rimesso in discussione il controllo sul gruppo spagnolo Endesa, tuttavia il rischio non è remoto, se si darà davvero seguito alle minacce protezioniste.

 

Matteo Salvini ha rilanciato la compagnia di bandiera per difendere una Alitalia nazionale nel momento in cui il treno Italo è stato venduto al fondo americano Gip (Global Infrastructure Partners) specializzato in infrastrutture. Qualcuno vagheggia un ritorno dei capitani coraggiosi, magari la stessa cordata che ha dato vita a Ntv: perché chi ha scommesso sul trasporto ferroviario privato non investe in quella che può diventare una florida linea aerea tricolore? Solo che due soci fondamentali non la pensano proprio così: le Assicurazioni Generali vogliono liberarsi delle partecipazioni che non fanno parte del suo mestiere principale e Intesa Sanpaolo è già azionista di Cai, la Compagnia aerea italiana nata nel 2009 che possiede il 51 per cento di Alitalia. L’uscita leghista, in ogni caso, getta un’ipoteca sul futuro e difficilmente il ministro Carlo Calenda potrà chiudere un accordo prima delle elezioni con questi chiari di luna.

 

La finanza, peggio ancora se selvaggia, è lo sterco del diavolo sia per i salvinisti sia, anzi ancor più, per i sandinisti. Ma, al di là di tutte le farneticazioni contro il potere pluto-giudaico-massonico, negli ultimi tempi gli strali si sono concentrati su due bersagli ben precisi: la Unicredit, numero due per capitalizzazione e unica banca italiana considerata sistemica, che ha una presenza molto vasta nell’Europa centrale, e le Assicurazioni Generali, nate quando Trieste era parte dell’impero austro-ungarico, che hanno mantenuto questa loro identità mitteleuropea. Entrambi i gruppi sono guidati da manager francesi e questo accentua il livore neo-nazionalista. Si tiene fuori Intesa Sanpaolo con una strategia centrata sull’Italia, meno lontana dalla filosofia dell’ultima trincea.

 

Sott’assedio il quartier generale di Leonardo, che opera nella Difesa. Ma non sfuggono alla tenaglia populista i gruppi privati

Letteralmente sott’assedio è il quartier generale di Leonardo (la ex Finmeccanica) che opera nella difesa e nell’aeronautica civile (con gli elicotteri Agusta Westland e con l’aereo a turboelica Atr). Convergono nell’attacco le forze pacifiste, soprattutto a sinistra, i Cinque stelle che vogliono riportare a casa i soldati impegnati in giro per il mondo, la Lega che intende impiegare l’esercito e la marina per fermare l’immigrazione. Senza considerare tutti coloro i quali considerano Vladimir Putin un partner privilegiato. Il nuovo piano industriale presentato dal banchiere Alessandro Profumo punta sugli elicotteri la cui domanda sul mercato è in ripresa e sugli aerei da caccia Eurofighter acquistati dal Kuwait. Due prodotti che reggono bene la concorrenza, ma sono anche macchine da guerra.

 

Leonardo ribadisce la sua vocazione atlantica, o meglio anglo-americana, tuttavia apre le porte ad alleanze strategiche nell’Unione europea. La fusione Fincantieri-Stx può dare corpo a una marina militare europea, all’interno del progetto di difesa comune che entra in collisione con gli interessi strategici moscoviti i quali si oppongono non solo alla espansione della Nato ai propri confini, ma anche all’allargamento della Ue e a un potenziamento delle capacità militari, quelle della Germania innanzitutto e quelle dell’Italia, in particolare sul mare dove la marina è di prim’ordine. Il rafforzamento della difesa europea non va giù a Putin che non vede di buon occhio una Ue troppo potente a trazione tedesca. E’ stato l’eventuale ingresso dell’Ucraina nell’Unione, d’altra parte, ad aver scatenato l’invasione russa, mentre i venti di guerra sul Baltico investono paesi che fanno parte della Ue più ancora che del patto Atlantico (Svezia e Finlandia, ad esempio, non stanno nella Nato). Le componenti filo-moscovite nella politica italiana affilano le sciabole.

 

Nella finanza, due bersagli ben precisi: Unicredit, unica banca italiana considerata sistemica,
e le Assicurazioni Generali

Non sfuggono alla tenaglia populista i gruppi privati, come ad esempio Benetton perché gestisce servizi in concessione (le autostrade) e si espande oltre frontiera (l’ultima operazione riguarda la rete spagnola Abertis); per loro il richiamo è a “fare gli interessi nazionali” invece di alzare le tariffe per finanziare investimenti all’estero. L’onda del rancore s’abbatte anche su Sergio Marchionne, l’italo-americano che “ha portato via la Fiat”. La buona congiuntura dell’auto ha saturato gli impianti italiani e soprattutto la nutrita filiera dell’indotto, ma questo non raffredda gli eroici furori. Non solo. Durante quest’anno potrebbe prendere corpo l’ipotesi di un’alleanza con un produttore più grande. Se il compratore fosse tedesco, per esempio la Volkswagen, tutto il vasto e trasversale fronte anti-germanico farebbe fuoco e fiamme. In ogni caso, l’integrazione in un colosso mondiale aprirebbe seri dubbi sul futuro degli stabilimenti automobilistici italiani.

 

Un esito elettorale premiante per le forze populiste, insomma, potrebbe innescare una sorta di guerriglia politica destinata a logorare i vertici di aziende accusate di perseguire una propria agenda, mentre dovrebbero tornare sotto la tutela della politica, del governo e del parlamento. I primi bersagli sarebbero senza dubbio i top manager, ma la stessa governance verrebbe stravolta.

 

E’ davvero possibile una sorta di ritirata nazionale? In realtà, se escludiamo qualche nostalgico dell’autarchia, nessun politico, per quanto radicale, è così sciocco da ritenere che si possa invertire un cammino più che decennale. Anche il più sprovveduto capirebbe subito che una scelta del genere metterebbe in difficoltà Eni, Enel, Leonardo o le stesse aziende private. Qual è dunque, nascosto dai fumi ideologici, l’obiettivo vero? In realtà, è espandere l’influenza, esercitare un controllo, utilizzare una parte delle risorse in funzione clientelare, investire in aree politicamente sensibili, offrire panem et circenses. Ciò mette sotto stress i bilanci e alla fin fine si traduce in sostegni pubblici e incentivi pagati dal contribuente.

 

Che i tamburi di guerra siano minacciosi non c’è dubbio alcuno. Ma questa pressione convergente può davvero cambiare la direzione di lungo periodo? Le grandi imprese nazionali hanno l’ambizione di muoversi ad ampio raggio e non solo in Europa, ma in America e in Asia; guardano agli Stati Uniti come Finmeccanica che ha privilegiato Boeing all’Airbus, o ai paesi in via di sviluppo come l’Eni, senza dimenticare che la Fiat ha avuto essa stessa l’ambizione di fare politica estera: nel 1966 costruì uno stabilimento in Unione Sovietica, a Togliattigrad, sul Volga, con il viatico della Casa Bianca guidata dal presidente democratico Lyndon Johnson; mentre nel 1976 sfidò gli Stati Uniti aprendo il capitale ai libici di Gheddafi per poi liberarsene dieci anni dopo su pressione di Ronald Reagan.

 

La speranza della diplomazia italiana, è sempre stata di ricavare un vantaggio competitivo dalle alleanze a geometria variabile. Un paese costretto a importare le materie prime e a esportare i suoi manufatti migliori, povero di grandi colossi industriali o finanziari, una lunga penisola che spacca il Mediterraneo e conduce l’Europa alle porte dell’Africa, può fare altrimenti? Il prezzo pagato è una notevole ambiguità che rischia di trasformare una necessità storica nella ricerca di furbi espedienti. Alcuni gioielli di famiglia, quelli di rilievo strategico, sono stati salvaguardati; l’Italia ha mantenuto una quota significativa nel commercio mondiale anche dopo l’irrompere della Cina, e una sua importanza geoeconomica. Ma non sarà per sempre così. Nulla è scontato, le condizioni per tenere, quanto meno, la posizione non sono facili, ancor meno se la prossima legislatura cadrà nella rete dei populisti che nascondono dietro idee appese al soffitto come caciocavalli (così si esprimeva Benedetto Croce a proposito delle idee platoniche) la ben più prosaica contrattazione degli interessi.