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Bitcoin & Co. sono carburante per una battaglia finanziaria latente?

Alberto Brambilla

Così la proliferazione delle criptovalute può mettere in discussione l’egemonia del dollaro difesa da Trump

Roma. A fasi alterne, ma sempre con maggiore enfasi, Bitcoin e le criptovalute hanno fatto discutere, al punto da diventare uno dei fenomeni finanziari (e di costume) dell’anno appena trascorso. Alcuni specialisti si sono esercitati nel tentativo di spiegare quali siano le caratteristiche di Bitcoin e perché non può essere definita una valuta in base alle funzioni che assolve. Altri si sono interrogati su quali siano le conseguenze della speculazione finanziaria che deriva dal trading sulle vertiginose escursioni di prezzo della più popolare criptovaluta alla Borsa di Chicago. Altri ancora hanno preferito mettere in guardia i singoli individui dall’illusione del guadagno facile che deriva da uno strumento speculativo legato sostanzialmente a una domanda che si autoalimenta (per poi, dicono i critici, implodere in un prossimo futuro mentre l’investimento va in fumo).

 

C’è però un altro aspetto che ha ricevuto meno attenzione: la portata geo-economica dell’uso delle criptovalute come strumento capace di innescare una nuova battaglia per la conservazione oppure, al contrario, per il sovvertimento dell’ordine monetario globale basato sul dollaro come moneta egemone per le transazioni finanziarie, per gli scambi commerciali internazionali, e il mercato petrolifero. Un aspetto della questione è stato illuminato in tempi non sospetti, forse acerbi, da Geoffrey Ingham, professore di Sociologia economica all’Università di Cambridge, in “La natura della moneta” (uscito nel 2016 per Fazi). Ingham si chiede a titolo di ipotesi se la moneta elettronica possa diventare “un meccanismo di trasmissione per la sostituzione della valuta su larga scala secondo gli interessi particolari di una èlite finanziaria globale”. “Anziché essere offshore, come erano quaranta anni fa, i nuovi mercati si troverebbero nel cyberspazio. La valuta X verrebbe cambiata in moneta elettronica, da lì in moneta Y e in asset finanziari liquidi. L’esistenza di questa ricchezza offshore – o meglio nel cyberspazio – porterebbe a un ulteriore restringimento delle basi fiscali degli stati sovrani e avrebbe ripercussioni sul welfare accentuando una tendenza già in atto verso una maggiore diseguaglianza. Qualsiasi cosa capace di aumentare la fungibilità degli asset di una plutocrazia globale tenderà a spingere i governi nazionali e le loro autorità monetarie a difendersi” , come in parte sta già accadendo. Poi Ingham aggiunge “inoltre, non potrebbe essere una nuova strategia per una insidiosa dollarizzazione globale?”. Ingham non indugia oltre, sembra però considerare l’ipotesi che l’egemonia del dollaro non può essere minacciata dalla stessa èlite finanziaria che ne beneficia (peraltro usando una innovazione di matrice anglosassone).

 

Perché le valute virtuali hanno valenza geo-economica e sono armi della lotta per la supremazia. La Russia sfida all'egemonia americana con il criptorublo il Venezuela dimostra che un'alternativa è possibile, la Cina avanza un sistema di transazioni parallelo a quello occidentale. E l'America non sta a guardare

La domanda di Ingham è comunque di attualità: la promiscuità delle criptovalute in circolazione metterà in discussione la supremazia del biglietto verde? Le criptovalute possono dare l’opportunità ai paesi sotto minaccia di sanzioni americane (Russia, Corea del nord, Iran e Venezuela) e ai paesi emergenti capitanati dalla Cina di sfidare il dollaro per creare un sistema alternativo? La Russia sta esplorando vari metodi per creare un “criptorublo” che potrebbe essere di aiuto per eludere le sanzioni occidentali. Funzionari di Mosca affermano che il presidente Vladimir Putin ha commissionato il lavoro per la creazione di una criptovaluta, mentre le istituzioni russe gestite dallo stato corrono a usare la blockchain, la tecnologia di “libro mastro” condiviso su cui si basano bitcoin e altre valute digitali. Il Financial Times riferiva che dopo un incontro in estate con Vitalik Buterin, il fondatore della criptovaluta Ethereum, nato in Russia, Putin ordinò al suo gabinetto di elaborare una struttura per regolarli. “Questo strumento ci si addice molto bene per attività sensibili per conto dello stato. Possiamo regolare i conti con le nostre controparti in tutto il mondo senza alcun riguardo per le sanzioni”, ha detto Sergei Glazev, consigliere economico del presidente russo. Hernan O. Gref, capo di Sberbank, la più grande banca russa, ha detto che si creerebbe una situazione di conflitto tale da “fare sembrare la Guerra fredda un gioco da ragazzini” se l’America inasprisse le sanzioni fino a includere l’esclusione delle banche e delle società russe dalla rete globale sulla quale avvengono gli ordini delle transazioni finanziarie internazionali, il sistema Swift, con sede in Belgio. Un’arma paragonabile alla bomba nucleare.

 

L’Iran ha sofferto l’esclusione da Swift per un decennio, fino all’apertura di Barack Obama nel 2016, che ora è messa in discussione dall’Amministrazione Trump. A settembre il segretario al Tesoro, Steve Mnuchin, ha accennato che anche la Cina potrebbe essere esclusa da Swift. Nel 2015 Pechino aveva inaugurato il suo International Payments System (Cips) che, pur avendo un accordo di collaborazione con Swift, in caso di esclusione potrà servire da alternativa anche per la Russia. La Cina ha finora inteso evitare una guerra al dollaro in quanto maggiore detentore di debito americano. Ma bisogna chiedersi se un’escalation della belligeranza tra Stati Uniti e Corea potrà fungere da innesco.

 

La Russia si fa portatrice delle istanze dei paesi emergenti “contro l’ingiustizia del sistema finanziario ed economico”, come ha detto Putin al vertice Brics lo scorso settembre. Mentre il Venezuela si è portato avanti rifiutando di accettare i pagamenti del petrolio in dollari – dimostrando così al mondo che un sistema alternativo al petrodollaro è possibile –, pubblicando un indice dei prezzi del petrolio denominato in Yuan, e lanciando la criptovaluta Petro garantita dalle riserve petrolifere nazionali.

 

Dal versante americano, Trump promise una distensione militare da candidato presidente, ma nel giro di un anno alla Casa Bianca è diventato un falco contro Corea del nord, Iran e Venezuela. E la strategia dell’“America First” sullo scacchiere mondiale significa protezionismo selettivo verso Russia e Cina. In questo senso ieri il Committee on Foreign Investment in the Us (Cfius), che vaglia gli investimenti stranieri negli Stati Uniti, ha bocciato la fusione tra Ant Financial Services Group, divisione finanziaria del colosso cinese dell’e-commerce Alibaba, e l’americana MoneyGram International, specializzata nei trasferimenti di denaro. “Il contesto geopolitico è cambiato in modo considerevole da quando abbiamo annunciato l’accordo con Ant Financial quasi un anno fa”, ha detto Alex Holmes, amministratore delegato di MoneyGram che è una società quotata in Borsa e quindi potenzialmente contendibile.

  

Dall’atteggiamento americano, dall’attivismo russo e venezuelano, oltre che dal vigile attendismo cinese, emerge l’impressione che una guerra finanziaria latente aspetti solo il casus belli per manifestarsi. Un ruolo in questo viene in parte giocato dalle valute virtuali usate come mezzo di minaccia. Al di là dei tentativi di spiegazione del fenomeno e delle discussioni tecniche, è utile ricorrere a Max Weber per cogliere un significato essenziale della moneta: “un’arma” nella lotta per l’esistenza quotidiana, ciò vale tanto per gli individui, per soddisfare i loro bisogni, quanto per le potenze nazionali, per lottare.

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  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.