Stefano Parisi (foto LaPresse)

No deficit man

Alberto Brambilla

L’ambizione di agganciare la rentrée a destra, che soffia dall’America sull’Europa, passa da drastici tagli di spesa e dall’eliminazione del parassitismo di stato dalla vita dei cittadini. Parla Stefano Parisi

Stefano Parisi coltiva da tempo l’ambizione di ricostruire il centro-destra con la sua piattaforma politica Energie per l’Italia. Per spiegare come intende farlo, parte decostruendo l’approccio dell’ex premier Matteo Renzi, riformista negli intenti ma scarso nel ridurre la spesa pubblica. “Renzi ha avuto una finestra di flessibilità di 26 miliardi dall’Europa, bruciati in misure inefficaci. Aumentare la spesa corrente non fa riprendere l’economia. La politica non ama affrontare la spending review. Invece il tema è affrontabile”. Ci spiegherà come. Tuttavia criticare Renzi perché doveva ridurre il deficit va bene, ma nella manovra finanziaria del prossimo anno le clausole di salvaguardia da 19 miliardi non si potranno disinnescare aumentando la flessibilità già concessa, probabilmente aumenterà la tassa sui consumi. Gentiloni vorrebbe appunto aumentare il deficit per poi tagliare le tasse sulle imprese. Non è coerente, dati gli spazi di operatività risicati?

 

“Sbaglia: bisogna tagliare la spesa per tagliare le tasse su imprese, lavoro e casa. Soltanto a fronte di una riduzione drastica della spesa si può farlo con credibilità. Oggi l’economia è bloccata da alta pressione fiscale e burocrazia soffocante. Tagliare la spesa serve anche a livellare l’economia, ridurre l’enorme fardello del settore pubblico. Va fatto un processo parallelo di vere privatizzazioni e bisogna farlo presto perché la finestra dei tassi bassi (concessi dalla Banca centrale europea, ndr) si andrà progressivamente chiudendo. Di conseguenza aumenterà la spesa per pagare gli interessi sul debito”.

 

L’ex commissario alla revisione della spesa Carlo Cottarelli, autore del libro “Il Macigno” (Feltrinelli), dedicato alle strategie per abbattere il debito pubblico, che lei ha presentato mercoledì a Milano, ha dovuto combattere, si diceva, con apparati burocratici ministeriali soprattutto recidivi, restii a cedere su posizioni di rendita costituite che si traducono in capitoli di spesa. Ogni commissario (ne abbiamo avuti cinque) sembra scontrarsi contro lo stesso muro di gomma, come potrebbe essere diverso? “La responsabilità è tutta della politica: Renzi ha licenziato Cottarelli e poi anche Roberto Perotti, il successore. La politica non affronta i problemi, non ha la forza di affrontare l’inefficienza. Invece il tema è affrontabile in tre modi. Primo: l’amministrazione deve fare meno cose meglio, far fare le cose ai privati quando dimostrano di saperle fare meglio. E le famiglie devono essere libere di scegliere i servizi migliori. Altrimenti il 60 per cento dei giovani continuerà a non lavorare. Inoltre serve la trasformazione digitale della Pa. Secondo: devono cambiare i modelli di contabilità, serve la possibilità di valutare le performance del pubblico, il controllo di gestione va fatto come nelle imprese private non dai giuristi ma da persone esperte di gestione – tutto gira su contabilità di cassa con controlli del tutto formali fatti da giuristi in fatto di legittimità e legalità degli atti, invece bisogna avere un sistema di controllo economico, come in altri paesi che hanno ridotto il debito del 50 per cento (Irlanda, Svezia, Belgio, Nuova Zelanda). Terzo: una potente trasformazione digitale della Pubblica amministrazione, con banche dati interoperabili; oggi spendiamo più di 4 miliardi annui in digitalizzazione ma male, in modo verticale, moltiplicando gli organi per funzioni  altrimenti accorpabili. Renzi è arrivato senza un mandato popolare, doveva continuamente cercare consenso lanciando messaggi di breve respiro, ma servono prospettive: serve che la politica dica la verità agli italiani affinché capiscono che queste cose servono per un realistico rilancio dell’economia, per creare occupazione soprattutto giovanile”. L’ultimo round di privatizzazioni promesso è stato oggetto di disputa tra il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, favorevole per andare all’incasso, e il Pd contrario, sia renziani sia ala sinistra. La destra ha traccheggiato: lei cosa ne pensa? “Si possono vendere Eni, Enel, Finmeccanica per un valore minimo di 60 miliardi di euro e farla finita con le nomine dei vertici ora in corso che vivono di potere”.

 

In un contesto internazionale dove notiamo il ritorno prepotente delle entità statali in chiave protezionistica, togliere un presidio pubblico incontrerebbe resistenze feroci, più di prima. Non crede? “Che bisogno c’è di un presidio se le nomine pubbliche spesso non funzionano? Siamo a gravissimo rischio di vedere l’Italia commissariata da Bruxelles, meglio liberarci delle aziende pubbliche il prima possibile. Cosa ci sarebbe di diverso quando arriveranno i commissari europei? Bisogna uscire dall’emergenza, dare immediati segnali di stabilità e volontà politica di ridurre il deficit. Stabilizzare l’economia richiede scelte radicali, inedite, con misure che avviino razionalizzazioni della spesa. Non è inutile quello che vuole fare il governo Gentiloni di mettere un tetto agli stipendi, è quel che si può fare in dodici mesi, ma segue una vecchia logica top-down e non è lungimirante”. Fastweb, compagnia telefonica del gruppo Swisscom, del quale lei è stato amministratore delegato, nasce in Italia con la privatizzazione della rete milanese, ora vediamo Atm in predicato di passare sotto Ferrovie dello stato. Come giudica l’operazione? “Atm è tra le società di trasporto pubblico locale più efficienti d’Italia, il comune di Milano la vuole passare al carrozzone Fs ed è una falsa privatizzazione, anche sei i media la definiscono tale, perché segue la stessa prassi del trasporto pubblico fiorentino passato a Fs con Renzi sindaco. Una logica gravissima: Fs sono molto inefficienti e anziché occuparsi di far funzionare i treni nelle aree arretrate si allargano a livello locale”.

 

Restiamo a Milano: Fabrizio Pagani, di cui si mormora una prossima nomina a direttore generale del Tesoro da capo della segreteria tecnica di Padoan (entrambi provengono dall’Ocse), dice che la proposta governativa di un’imposta forfettaria di 100 mila euro sui redditi prodotti all’estero servirà per attirare personalità con grandi patrimoni in Italia perché “incidere sulla tassazione personale è la chiave per rendere il paese più attrattivo” e ciò “riguarda soprattutto Milano, che abbiamo lanciato come hub finanziario europeo”. Le chiediamo: è sufficiente una tassazione personale agevolata per attirare capitali? E poi: Milano, che lei si candidò a guidare, poi battuto di misura da Giuseppe Sala (indipendente vicino al Pd), è davvero un hub della finanza con la sua Borsa di proprietà inglese che ha una capitalizzazione in mano a privati ridotta drasticamente negli anni a favore delle società con partecipazione pubblica? “Una ‘flat tax’, come la chiamano, sarebbe utile per attirare capitali e investitori esteri se si fosse al contempo in grado di dare certezza del diritto. Non lo si è fatto in tanti ambiti (energia, industria ecc.) e si è in continua balia di pezzi vari delle istituzioni pubbliche che bloccano le decisioni. Non prendiamoci in giro: Milano non è più un hub finanziario, è evidente. La performance del sistema bancario, con relative crisi e scandali, non ci permette di candidarci a quel ruolo. Potremmo tornarvi solo dando garanzie ai risparmiatori, stabilizzando il sistema bancario. C’è molto lavoro da fare. Anche per rigenerare Milano: l’area Expo è ferma, non c’è nessun progetto su un’area il cui destino era programmabile anni fa. Tutto è bloccato da logiche prive di qualsiasi visione sul futuro. La città è ferma a decisioni prese dalle giunte Albertini (1997-metà 2006) e Moratti (metà 2006-2011). Il regolamento edilizio è paralizzante: non c’è sviluppo, non c’è alcun miracolo meneghino. Se vuole diventare una città attrattiva deve avere dimensione internazionale, università, architettura rigenerazione urbana, e dev’essere viva. Cosa che non ha nemmeno in progetto di diventare”.

 

Lei è stato city manager di Albertini, all’epoca tentò una liberalizzazione del trasporto pubblico aumentando le licenze dei taxi. Andò male, era un’epoca pre-Uber. Sulla proposta di liberalizzare il settore, nel milleproroghe che interessava le auto a noleggio con conducente (Ncc), c’è stata battaglia. La destra, come con le privatizzazioni, ha traccheggiato. Cosa ne pensa? “Sono decisioni che un governo doveva prendere dieci anni fa: che un Ncc non dovesse tornare in garage per nuovo ordine avrebbe migliorato la qualità del trasporto urbano e fatto crescere anche il servizio taxi. Credo fermamente che una buona concorrenza serve a tutti, tassisti compresi. Le tecnologie di geolocalizzazione, di cui si serve Uber, sono adottate anche da loro: più la domanda incontra l’offerta più cresce il mercato. Se nelle città si riducono le auto private e aumenta il servizio pubblico, aumenta la domanda e i prezzi si riducono. Questo sia sinistra sia destra hanno sempre avuto paura a dirlo. Ovviamente parlo di un mercato regolato in cui tutti hanno le stesse possibilità. Vale anche per l’interurbano, con gli autobus di Flixbus. Il tema della liberalizzazione riguarda lo stato contro i privati: la vera liberalizzazione è togliere di mezzo lo stato e fare gestire i servizi ai privati, e vale anche nella scuola. In Italia la concorrenza non si è mai affermata. Il pubblico deve uscire dalle utility: il comune di Milano deve uscire da A2A (elettricità, gas, rifiuti) e i comuni dell’Emilia Romagna, e non solo, da Hera (idrico, gas, elettricità, rifiuti, telecomunicazioni)”. Non sembra che l’Italia sia il covo di liberisti che spesso i media descrivono visto lo stato delle cose. “Pier Luigi Bersani a un convegno aveva detto che purtroppo in Italia di liberali ce ne sono pochi, e detto da un comunista la dice lunga”.

 

L’economista Arthur Laffer, consigliere di Ronald Reagan, disse al Foglio in tempi non sospetti che avremmo visto una ventata di destra soffiare dall’America verso l’Europa. E’ arrivato il repubblicano Donald Trump e in Europa avanza l’establishment di destra. In Italia è possibile dire lo stesso? Il Movimento 5 stelle non potrebbe drenare consensi e impedirre una rentrée a destra? “Non credo. Il 5 stelle ha spazio dove non c’è un’offerta seria di centro-destra o centro-sinistra, a Milano c’era e ha perso. Il problema è che il centro-destra si ricostruisce innanzitutto dal punto di vista etico e con la qualità delle persone: deve rinnovarsi, oggi la domanda di cittadini è di avere una politica nuova ed onesta. Poi succeda quel che succede”.

 

Anche lei indugia con la solita tiritera dell’onestà? “Mi spiego meglio: non possiamo avere in politica gente che fa politica per suoi interessi. E’ dal 1992 con Mani pulite che la politica reagisce alla pressione mediatico-giudiziaria riempiendosi di magistrati, aumentando le pene… non serve a nulla. Bisogna avere persone che non rubano e che fanno politica per gli altri. Non è creando l’Autorità anti corruzione (Anac) o l’assessore alla legalità che si ha la patente di onestà. Perché deve esserci bisogno di questo? E’ un problema di fondo: se uno pensa che la politica è un posto per chi non ha né arte né parte avremo sempre una politica degradata con persone di bassa qualità. Un politico deve assumersi la responsabilità del suo operato”.

 

Guardando all’accesa campagna elettorale francese abbiamo Emmanuel Macron che viene associato a Renzi, Matteo Salvini associato a Marine Le Pen, lei si candida emulo di François Fillon? “Sembrerò presuntuoso ma le lezioni americane ci hanno dimostrato che gli schemi che conosciamo sono saltati. Non sono un moderato: servono politiche drasticamente riformatrici. Vedo cose interessanti nel programma di Macron e di Fillon ma di certo non in quello di Le Pen”. Qual è la sua posizione sulla permanenza dell’Italia nell’Unione europea e nell’Eurozona? “Dobbiamo essere in grado di riprendere capacità di lettura della società: siamo dentro l’Europa e non possiamo starne fuori. Dobbiamo stare dentro l’euro: uscire sarebbe un disastro sociale perché sarebbe impoverimento drammatico degli italiani in termini di capacità reddituale e patrimoniale. Per cambiare l’Europa in modo profondo l’Italia dev’essere autorevole e per farlo deve ricominciare a crescere ed essere un luogo di giustizia sociale”.

 

Dopo il referendum costituzionale – lei suggerì di votare No alla proposta di riforma sulla quale Renzi si mise in gioco – aveva lanciato l’idea di un’ Assemblea costituente, che era poi anche l’idea di Massimo D’Alema: a tre mesi di distanza ne è ancora convinto? “Assolutamente sì: serve un’Assemblea costituente, eletta con metodo proporzionale, in cui ogni movimento politico candidrebbe i suoi rappresentanti. La mia idea è quella di avere una sola camera, un presidente del Consiglio responsabile eletto e che nomina i ministri, un premierato, trasformare le regioni che sono troppe e inefficienti in macroregioni, sindaci forti con responsabilità fiscale, e reinserire le province perché quella di abolirle è stata un’operazione di finanza pubblica per ridurre i trasferimenti, ma oggi comporta vuoti istituzionali, il problema non è stato risolto. Bisognava eliminare le sovrapposizioni c’è una confusione istituzionale incredibile. Avere un governo stabile con un mandato chiaro è una questione di responsabilità: chi ha comprato il nostro debito pubblico dall’estero e dall’Italia (il 60 per cento è detenuto dagli italiani), chi ha un lavoro, chi ha un’impresa, ha bisogno di un segnale molto forte e un governo dovrebbe avere il coraggio di intestarsi un ruolo storico nel fare tutto questo”.

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  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.