L'Italia onirica di Salvini

Carlo Torino

Tutto il carico ideologico delle fantasie supply-side in ritardo di trent'anni. L'irragionevolezza della flat-tax, e della curva di Laffer applicate alla nostra economia e ai nostri vincoli europei. La Lega propone ricette palingenetiche di un riscatto sovranista che non trova rispondenza nel principio di realtà     

Le linee programmatiche di politica economica enunciate dal segretario delle Lega Matteo Salvini, devono preoccuparci non poco. Esse mostrano una palese tendenza a rifugiarsi in mondi onirici felliniani, dove prevalgono le pulsioni dell’inconscio, e il principio di realtà soccombe.

Inutile ricordare che la proposta di applicare una flat-tax al 15% - su società e persone fisiche – sia, nella sua enfasi ideologica, carica di riferimenti alle teorie cosiddette supply-side, tutte figlie del sistema di pensiero che ha il suo fulcro nella curva di Laffer; e abiurate da gran parte degli economisti internazionali.  È inutile, dicevamo, rievocare l’inevitabile incidenza di una tale politica di tagli fiscali così aggressivi sul disavanzo e, di riflesso, sulla sostenibilità del debito pubblico. Ed è altresì vano riecheggiare gli «insopportabili» motivi dei nostri impegni in sede europea sulla tenuta dei conti. No: non solo sul piano del vincolo esterno va confutata la tesi leghista. Ma sulla base di una serie di osservazione macroeconomiche che non possono essere relegate in secondo piano.

La prima incoerenza logica - vangelo per gli (ormai pochi) apostoli più intransigenti di quelle teorie che propugnano interventi sul lato dell’offerta (sulle imprese) per stimolare la crescita -, si esaurisce nell’affermare che i tagli si autofinanzierebbero attraverso maggiori entrate fiscali, frutto di una più elevata produzione industriale. La riduzione delle imposte sulle imprese aumenterebbe la propensione di queste ultime a investire in macchinari e progetti di espansione (anche in ricerca e sviluppo?), la quale a sua volta avrebbe un positivo impatto occupazionale. Un’immediata obiezione su questo punto è la stessa che il mondo accademico ha opposto alle tesi del segretario del Tesoro americano, Steve Mnuchin, il quale avrebbe affermato che tagli simili non hanno alcun impatto in termini di entrate. Asserire la neutralità fiscale dei tagli equivale a commettere un imperdonabile errore concettuale pari, nella sostanza, a un doppio conteggio della stessa voce contabile. I tagli hanno un costo effettivo, immediato, per il bilancio dello Stato. Se non altro perché costituiscono una sorta di investimento, giustificato dalla (ir)ragionevole previsione di maggiori entrate future. Nessun rispettabile dirigente d’azienda affermerebbe mai che un investimento, per il semplice fatto che i ricavi (futuri) ad esso connessi siano maggiori dei costi sostenuti, proprio per questo stesso motivo, non sia costato nulla.

Seconda obiezione: occorrerebbe conoscere le ipotesi di crescita nominale (al lordo dell’inflazione) sottese alle stime della Lega. Per esempio, negli Stati Uniti le stime fanno riferimento al 3-3,5% per i prossimi cinque anni. Un’ipotesi a dir poco singolare per un’economia vicina alla piena occupazione, con un tasso di disoccupati in rapporto alla forza lavoro del 4.5%, e limitata capacità in eccesso. Impossibile, a meno di attendersi un incremento esplosivo nei livelli di produttività, simile a quello vissuto nel periodo 1997-2006; che sarebbe del tutto inverosimile preconizzare. Un altro aspetto è quello dell’andamento demografico: è cioè sensato attendersi che il prodotto interno lordo di un paese possa crescere – in assenza, per esempio, dei risvolti favorevoli in termini di produttività di una rivoluzione tecnologica – all’aumentare della popolazione adulta. Purtroppo i livelli di espansione demografica sono estremamente compressi nel mondo occidentale (0,2% negli Usa, addirittura negativa in Italia). Ma non solo: una crescita del 3-3,5% nominale, equivale al 2,9% (per cinque anni consecutivi!?) di crescita nella produzione per ogni singolo lavoratore. Un dato abnorme, che le stime storiche ci informano essere stato raggiunto, per un per un periodo di tempo significativo, solo in alcuni casi di forte ripresa ciclica, e di mutamenti strutturali nei tassi di partecipazione alla forza lavoro (si pensi all'emancipazione femminile).  Condizioni comunque lontane da quelle attuali.

Gli Stati Uniti hanno inoltre l’enorme vantaggio di poter stampare la loro moneta, e salvare (o liquidare) le loro banche. Non devono in alcun modo render conto a nessuno (se non ai mercati) dell’andamento del loro disavanzo. Ciò detto, tagli fiscali di simile entità furono portati avanti dall’amministrazione Raegan – in un contesto strutturale dell’economia del tutto dissimile da quello attuale -, e ciò nonostante nessun alto funzionario osò fino al punto di lasciare intendere a una possibile neutralità sui conti.     

La crescita reale attesa in Italia è dell’1,1% per il 2017 (contro il 2% degli Usa), e dell’1% in media per i prossimi tre anni. I tassi di produttività presentano un andamento in contrazione da oltre dieci anni. Le stime demografiche sono per un progressivo invecchiamento della popolazione; la disoccupazione è oltre l’11%. Non disponiamo della sovranità monetaria necessaria per attuare eventuali svalutazioni competitive, o semplicemente intervenire in maniera indipendente ricapitalizzando il sistema finanziario.

Una politica di tagli fiscali a tal punto aggressivi, implicherebbe alla base una crescita tale da portare la disoccupazione almeno intorno al 4%, forse al 3%. Un calo di oltre sette punti percentuali. E nell’arco di due o tre anni? Cosa accadrebbe frattanto al disavanzo e al debito? A che livello giungerà il tasso di interesse sulle nostre emissioni (ammesso vi sia ancora qualcuno disposto ad acquistarle). E le conseguenze sull’euro, e sulla nostra credibilità internazionale? Domandiamoci: è sostenibile una politica di questo tipo? E soprattutto: con quali effetti redistributivi? A beneficiarne sarebbero principalmente le classi agiate: quelle con un’aliquota già al di sopra del 15%. Svanirebbe quella pur minima parvenza di progressività nel nostro sistema fiscale, con grave pregiudizio per le classi meno abbienti.

I falsi profeti e i loro messianismi d’accatto sono stati sistematicamente smascherati dalla Storia, implacabile nel suo fluire. Ma a quale prezzo umano?