Mario draghi (foto LaPresse)

Perché l'avanzata del protezionismo allarma anche Mario Draghi

Marco Valerio Lo Prete
Uno studio del Fmi sul nesso tra ostacoli agli scambi e anemia di prezzi. E poi quella serie di allarmi lanciati dalla Bce.

Roma. La rentrée del presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, attesa per oggi, ha già ricompattato i mercati europei almeno per 24 ore. Ieri infatti le Borse del Vecchio continente, scommettendo sull’annuncio di altre misure espansive di politica monetaria, hanno chiuso in positivo, con Milano e Madrid che svettavano. Anche i rendimenti dei titoli governativi sono scesi: il Btp decennale emesso dal Tesoro di Roma ha chiuso a 1,08 per cento. Meno compatti, invece, gli analisti. Una minoranza di loro si attende per oggi decisioni choc da parte dei governatori delle Banche centrali nazionali riuniti a Francoforte. Perché i dati macroeconomici non sono scintillanti: l’inflazione nell’Eurozona è ferma allo 0,2 per cento, allo 0,8 se si escludono beni volatili come energia e alimentari, distante dall’obiettivo  Bce (“vicino ma inferiore al 2 per cento”). E perché abbiamo già 1.000 miliardi di Quantitative easing alle spalle, più della metà del previsto. Nonostante ciò, la maggior parte degli analisti presterà invece attenzione alle nuove previsioni della Bce su pil e inflazione. Solo un loro peggioramento spingerà la Bce ad agire di nuovo, ma in un’altra occasione.

 

Draghi e colleghi si riuniscono all’indomani del  G20 di Hangzhou, in Cina, dove tanta parte della discussione è stata occupata da un nuovo spettro che aleggia sull’economia mondiale: il protezionismo commerciale. Il panorama è il seguente. I venti leader riuniti in Cina hanno rassicurato, a parole, che le barriere agli scambi, dichiarate o dissimulate che siano, no pasaran. I fatti, però, puntano in una direzione diversa rispetto alle opinioni. La corsa per la Casa Bianca negli Stati Uniti si combatte tra due leader, il repubblicano Donald Trump e la democratica Hillary Clinton, che si rincorrono nello sconfessare le intese commerciali concluse dal predecessore Barack Obama. La Cina, tra imprese di stato e dumping in quantità, non aiuta i partner americani a tranquillizzare la loro opinione pubblica. La classe dirigente inglese rimane fortemente liberoscambista, ma dopo il referendum sulla Brexit dello scorso 23 giugno tutti gli accordi tra Londra e il resto del mondo sono da riscrivere per il momento in cui l’uscita dall’Ue sarà perfezionata. All’interno della stessa Unione europea, gli equilibri sono rapidamente cambiati, e si vede: l’asse franco-tedesco sembra essere riuscito ad affossare il Ttip, l’accordo di libero scambio con gli Stati Uniti, nonostante paesi come l’Italia sperassero in questa leva per risollevare la crescita. Specialmente in America, poi, anche le recenti decisioni della Commissione Ue contro Apple e altri colossi vengono interpretate come l’appendice di un atteggiamento di chiusura più generale.

 

Perché tutto ciò dovrebbe interessare la Bce è illustrato in una ricerca appena consegnata in via riservata dal Fondo monetario internazionale (Fmi) ai leader del G20. Secondo il quotidiano finanziario americano Wall Street Journal, lo studio del Fmi “dimostra come un aumento delle barriere commerciali negli ultimi anni stia già causando danni”. Il protezionismo, insomma, è qualcosa di più concreto di uno spettro. Il Fmi passa in rassegna gli ultimi dati sulla crescita fiacca abbinata all’inflazione altrettanto fiacca, e ricorda che domanda aggregata debole e prezzi delle materie prime in calo sono i principali “driver” dei prezzi anemici. Aggiunge che da una parte la Cina, con i suoi eccessi di capacità produttiva, alimenta le pressioni deflazionistiche, e che dall’altra gli scambi in calo a cavallo delle frontiere deprimono il pil: la gran parte del calo delle importazioni è dovuta alla ripresa che non c’è, agli investimenti che latitano e alla liberalizzazione del commercio che perde vigore.

 

Draghi non ha competenze istituzionali sul punto, ma forti convinzioni sì. Nel 2009, in un intervento come governatore della Banca d’Italia, quando forse un pizzico di libertà di tono in più era consentita, Draghi sottolineò “il tentativo di raggiungere un accordo per concludere il negoziato di liberalizzazione commerciale multilaterale del Doha Round”, osservò che “alcuni paesi emergenti hanno innalzato dazi commerciali o avviato azioni antidumping” e avvertì: “Finora gli interventi sono stati limitati, per lo più contenuti nei margini concessi dalla normativa multilaterale. Una loro moltiplicazione potrebbe avere effetti deleteri, innescando un ciclo di ritorsioni commerciali”. Da qui nasceva un duplice appello: alla “nuova Amministrazione statunitense”, affinché “resistesse con decisione alle richieste di protezione commerciale”; e ai leader europei, affinché non contraddicessero i loro “appelli al libero scambio” con “comportamenti di altro tipo”.

 

Sette anni dopo, chissà se il banchiere italiano sarebbe ancora così fiducioso. Non si può comunque dire che la Banca centrale europea sia stata colta di sorpresa: nel Bollettino mensile del settembre 2009, l’Eurotower valorizzò per esempio alcune ricerche sul libero scambio – argomento che non rientra nel suo mandato inteso in senso stretto – e suggerì che “qualsiasi tendenza protezionistica dovesse essere fortemente scoraggiata”. Il centro studi della Bce, nel 2010, era ancora cautamente ottimista: in un suo occasional paper, affermava di vedere sì i rischi di un’ondata di chiusura ma “nessun aumento sostanziale di misure protezionistiche”. Nel novembre 2013 Jörg Asmussen, il tedesco della Bce considerato più vicino a Draghi (nel frattempo divenuto presidente dell’Istituto), disse che il Ttip avrebbe “molto aiutato” una “crescita equilibrata” in Europa e negli Stati Uniti. Salvo poi abbandonare la Bce dopo pochi giorni e arruolarsi nel governo Merkel che quel Ttip lo ha bistrattato eccome. La scorsa primavera Vítor Constâncio, numero due di Draghi, ha ribadito per l’ultima volta la posizione ufficiale della Bce sul tema. Sottolineando che “tariffe e protezionismo” potrebbero tentare i leader mondiali ma non consentiranno di sfuggire alla “trappola della liquidità” in cui forse ci troviamo: anzi, “aggraverebbero lo stato di salute dell’economia mondiale”. Rendendo ancora più complicata la battaglia anti deflazione di Draghi e colleghi.

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