Muli portano la Coca-Cola nella medina di Fez, chiusa al traffico (Dennis Jarvis via Flickr)

Cos'è il ritorno indietro dalla globalizzazione? Appunti per non perdersi

Stefano Cingolani
Si scrive Brexit, si legge no global. Lo dice persino l’Economist nell’editoriale odierno: “I proponenti della globalizzazione, compreso questo giornale, debbono riconoscere che i tecnocrati hanno commesso errori e la gente comune ne ha pagato il prezzo”.

Si scrive Brexit, si legge no global. Lo dice persino l’Economist nell’editoriale odierno: “I proponenti della globalizzazione, compreso questo giornale, debbono riconoscere che i tecnocrati hanno commesso errori e la gente comune ne ha pagato il prezzo”. La “politica della rabbia” come la chiama il settimanale british, nasce dalla “confusa rivolta contro il calcolemus” (cioè la logica economica) della quale scriveva nel 1990 il filosofo liberale Isaiah Berlin, diventata nel frattempo rifiuto, forse tardivo, ma non per questo meno netto, del modo di produzione globale. E non solo in Inghilterra o in Europa. Avete fatto caso che nessuno dei candidati alla Casa Bianca ha mai citato il libero scambio e il trattato in discussione tra Stati Uniti ed Europa? Né Donald Trump (ed è comprensibile lui è un no global di destra), né Bernie Sanders (anche questo lo si capisce conoscendo gli umori della sinistra), ma nemmeno Hillary Clinton. Eppure, si deve in gran parte al liberoscambista Bill, suo marito e presidente, quel venticinquennio in cui il mondo è cresciuto a più non posso e la Cina è tornata una grande potenza. Lo ha notato l’economista Larry Summers ed è come se avesse detto “il re è nudo”. La classe dirigente americana si vergogna di quello che da questa parte dell’Atlantico viene considerato l’ultimo ruggito dell’Impero a stelle e strisce. Opportunismo, per mettere le vele al vento del nuovo Zeitgeist o forse cattiva coscienza.

 

Che il trend esista non c’è dubbio, è quasi una moda e ha contagiato i maggiori pensatoi economici e politici. Ci si è messo anche il Crédit Suisse il quale nel suo magazine online The Financialist, si chiede: “La globalizzazione è finita?”. Sembra quasi un ritornello che risuona dal New York Times con l’editorialista liberal Roger Cohen a uno dei maggiori siti di intelligence americana, il conservatore Stratfor, pieno di analisi e dibattiti dedicati allo stesso tema, spesso con punti di vista originali come quello di Rebecca Keller secondo la quale è l’innovazione tecnologica a spingere indietro l’onda globale. La nuova informatica, le stampanti a tre dimensioni, tutta la panoplia di aggeggi che consentono oggi di produrre da casa o da piccoli laboratori, sta favorendo il localismo. In Italia potremmo dire che è la rivincita del Censis. Anche Giuseppe De Rita ha colto lo spirito del tempo e nei suoi seminari annuali “Un mese del sociale” quest’anno ha lanciato il messaggio di “ripartire dalla dimensione territoriale, per ritrovare la via dello sviluppo secondo il modello italiano”. Non c’è solo il lato ideologico, non c’è solo la politica o la sociologia (il rifiuto dei vinti, dei perdenti). A voler essere tardo-marxisti è una questione di struttura e non di sovrastruttura, pur senza sottovalutare l’empireo delle idee. D’altra parte, il dibattito pro e contro la globalizzazione va avanti da un quarto di secolo, anzi nasce con la globalizzazione stessa.

 

Molti ricordano le manifestazioni violente come a Seattle nel 1999 per la conferenza dell’Organizzazione mondiale per il commercio. Quelli erano i no global di sinistra, oggi in regresso. Ma c’erano già i no global conservatori e non erano esattamente populisti. Sir James Goldsmith ricchissimo finanziere ben collocato nell’élite britannica, deputato europeo euroscettico, nel 1994 se ne uscì con illuminanti analisi sul perché con l’avvento della Cina e di tutto quel mondo che finora l’Occidente aveva controllato se non dominato, sarebbe stato impossibile assicurare alti salari, pensioni e sanità per tutti, un generoso welfare state. Ragionava quasi da laburista e diceva: come si fa quando il valore aggiunto non viene più né creato né distribuito su base nazionale? Partiti, sindacati, governi non contano più niente e alla fine la moneta cattiva scaccia quella buona. Analisi che in Italia hanno influenzato il pensiero (e in parte l’azione) di Giulio Tremonti fino al suo ultimo libro appena uscito, “Mundus Furiosus”. Un brutto scossone arriva con il terrorismo islamico: dopo l’11 settembre 2001 la libertà (quella di movimento per esempio) si è ridotta. Poi scoppia la crisi del 2008. Ci sono vari modi per misurare questo colpo di coda. Il McKinsey Global Institute calcola una riduzione notevole dei movimenti di capitale (l’arma d’assalto della globalizzazione) tornati ai livelli del 2000. E non solo per colpa della Grande recessione e della debole ripresa, fenomeni che hanno indotto a loro volta un rallentamento dei paesi in via di sviluppo. “Le forze che hanno garantito eccezionali guadagni negli ultimi trent’anni si indeboliscono, sono in ritirata”, scrivono gli analisti di McKinsey e, capovolgendo il senso comune, sottolineano che proprio questa scarsità relativa di capitale (cioè moneta, non tesaurizzata, perché questa abbonda, ma investita) spinge a isolarsi, a chiedere protezioni, a difendere i risparmi e i sistemi produttivi locali. Persino le imprese più aperte al mondo si concentrano sulla domanda domestica per mettesi al riparo.

 

Naturalmente non vanno sottovalutate le contraddizioni interne: una distruzione creatrice che intanto distrugge e poi crea. Nel frattempo, c’è gente che perde il lavoro, la casa, l’identità. Però, nel chiedersi perché questa congiunzione di fattori si scatena adesso, bisogna stare attenti a non diventare prigionieri del nuovo senso comune. C’è una globalizzazione che non può essere bloccata: quella scientifica e tecnologica per esempio o più in generale la circolazione delle idee e degli uomini (chi ha mai fermato gli spostamenti di popoli?). Ma sia il globalismo fideistico sia il neo-protezionismo non tengono conto di una diversa possibilità. E allora torniamo di nuovo a Summers. L’ex segretario al Tesoro con Bill Clinton, ha scritto sul Financial Times del 10 aprile scorso che “la globalizzazione dovrebbe essere rifatta partendo dal basso”. Bello slogan, ma come? C’è un problema produttivo (come generare più reddito nazionale) e uno redistributivo. La sensazione diffusa è che “la mondializzazione felice”, come l’aveva chiamata Alain Minc, abbia reso felici i soliti noti. La divaricazione della ricchezza (anche se Thomas Piketty avesse torto) è diventata percezione quotidiana e muove la pubblica opinione. Secondo Summers, oggi “l’enfasi deve essere posta sul promuovere l’integrazione e gestire le sue conseguenze”. Vasto programma, nessuno sa cosa significhi in concreto né come realizzarlo, ma una cosa è certa: non ci si può mettere mano a livello locale. Ci vorrebbe un kantiano governo mondiale? Calma e gesso. Magari potrebbe bastare “l’armonizzazione”, la nuova parola d’ordine lanciata da Mario Draghi a proposito delle politiche economiche e monetaria. Ma sempre di globalizzazione si tratta. Tra global e no global , così, spunta il neo-global, un global 3.0.