Mario Draghi (foto LaPresse)

Imprese, industriatevi!

Marco Valerio Lo Prete
Il “paracadute pubblico” per le banche in difficoltà. Nel dibattito domestico italiano è rimasto soltanto questo delle parole pronunciate giovedì scorso dal presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi.

Roma. Il “paracadute pubblico” per le banche in difficoltà. Nel dibattito domestico italiano è rimasto soltanto questo delle parole pronunciate giovedì scorso dal presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi. Ciò è dovuto in parte alla comprensibile fibrillazione del nostro settore creditizio, stretto tra l’onda lunga della Brexit e i nuovi stress test della prossima settimana. E in parte è dovuto al diabolico tic culturale descritto venerdì sul Foglio dal filosofo Raimondo Cubeddu: l’illusione di poter curare sempre l’ansia generata dal futuro incerto tramite nuovi provvedimenti politici, così che i fallimenti della politica finiscono per aumentare la domanda di politica. Il ragionamento di Draghi in realtà era più ampio: legava per esempio l’andamento dei titoli bancari in Borsa (finanza) alla potenziale di difficoltà degli stessi istituti di approvvigionarsi sul mercato e quindi alla loro futura munificenza (credito); si soffermava sul nesso tra regole fallimentari (legislazione), applicazione delle stesse (giustizia) e smaltimento delle sofferenze bancarie; solo alla fine accennava alle circostanze eccezionali in cui aprire un paracadute pubblico. Insomma, il banchiere centrale ancora una volta si è collocato a pieno titolo tra quelli che Riccardo Gallo, autore di “Torniamo a industriarci” (Guida editori), chiama “gli spronatori”. Una minoranza culturale inascoltata – scrive l’ingegnere e docente di Economia industriale alla Sapienza – che nel dibattito economico e sociale italiano si confronta con “declinisti”, “ottimisti” e “spacchettatori” e che batte a ragion veduta sul tasto degli investimenti che mancano come principale malanno del paese, investimenti da rilanciare attraverso il cambiamento del contesto regolamentare che va reso più favorevole alla crescita.
Gallo infatti, dati alla mano, sostiene che c’è ben poco di congiunturale nella nostra crisi e nella nostra ripresa al ralenti, e descrive piuttosto come e quando tanta parte delle nostre forze produttive ha tirato i remi in barca.

 

“L’industria italiana si è deindustrializzata” ben prima che solo si iniziasse a parlare della temibile concorrenza di intelligenza artificiale e automazione: il valore aggiunto sul fatturato delle imprese industriali tra il 1989 e il 2013 è passato dal 29 al 16 per cento, per poi risalire di un punto nel 2014; gli occupati nel manifatturiero sono scesi da 3,67 milioni nel 1995 a 3,18 nel 2014. Soprattutto, però, gli investimenti produttivi alla fine degli anni 90 sono iniziati a calare: quando il crac di Lehman Brothers era ancora di là da venire e il Monte dei Paschi di Siena nemmeno scricchiolava, il flusso di cassa era già utilizzato essenzialmente per ridurre i debiti finanziari, e poi “negli ultimi dieci anni gli imprenditori si sono distribuiti come dividendi tutti gli utili di gestione”. Quindi, “prima di rivolgersi al sistema bancario per ricapitalizzare le imprese – scrive Gallo – esse dovrebbero fare ‘mea culpa’, riflettere e ricordare che un vero imprenditore gli utili li lascia nell’impresa, perché quella è l’unica sede giusta”. Sempre alla fine degli anni 90 l’autore fa risalire l’inizio della caduta dei nostri indici di competitività (dalla pressione fiscale alle infrastrutture) e l’avvio di una fase di incertezza massima degli imprenditori.

 

Gallo non è un nostalgico della politica industriale, si limita a osservare che la china discendente coincide storicamente con la rottamazione di tutti gli strumenti di intervento pubblico dell’economia – cioè partecipazioni pubbliche e istituti di credito industriale – intervenuta un po’ per volontà di Bruxelles, un po’ per esigenza di fare cassa. Mentre l’ecosistema cambiava, dunque, tanti imprenditori non avevano la capacità o la voglia di adattarsi, la Confindustria ha continuato a insistere su istanze genericamente condivisibili ma allo stesso tempo è andata alla ricerca di prebende pubbliche di corta veduta, e troppi governi hanno ritenuto in fondo di poter continuare con il solito tran tran. Tutti perdendo di vista il fatto che le statistiche su competitività e produttività sono impietose, certo. Ma ancora peggio è la rassegnazione di un paese in cui perfino industriarsi diventa sconveniente.

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