Federico Ghizzoni (foto LaPresse)

C'è nuovo regime bancario dietro l'uscita di Ghizzoni da Unicredit

Alberto Brambilla
L’ascesa degli investitori globali, i limiti delle fondazioni e la spintarella della stampa british. Cambio di paradigma.

Roma. L’amministratore delegato di Unicredit, Federico Ghizzoni, ha lasciato la banca dopo circa sei anni al vertice e trentasei all’interno del gruppo. Ha rimesso il mandato durante la riunione straodinaria del cda indetto ieri per discutere la sua sostituzione. Le dimissioni di Ghizzoni dalla seconda banca italiana per capitalizzazione erano nell’aria da mesi e, secondo indiscrezioni, la spinta dei soci esteri è stata decisiva. Il cambiamento sottolinea un movimento strutturale nel settore bancario in cui un nuovo regime animato da investitori globalizzati s’è sostituito a quello delle fondazioni locali. Nel 2010 le fondazioni bancarie furono decisive nell’allontanare l’ex ad Alessandro Profumo. Fondazione CariVerona, allora primo socio, voleva la testa di Profumo mentre Fondazione Cassa di Risparmio di Torino non fermò il boia. La rapida ascesa dei soci libici venne usata come pretesto dall’allora  presidente, il tedesco Dieter Rampl, per sollevare un caso di violazione della governance e portare alla rottura del rapporto fiduciario con l’ad. Per Ghizzoni vale l’inverso. Le fondazioni hanno ridotto il loro peso mentre gli azionisti stranieri, il fondo sovrano di Abu Dhabi, Aabar, e il fondo americano BlackRock, il più imponente al mondo che ha puntato almeno 50 miliardi sui titoli italiani, sono i primi soci con circa il 5 per cento delle quote rispettivamente. Gli investitori istituzionali rappresentano inoltre il 41 per cento del capitale e per il 96 per cento sono residenti in Europa continentale, Regno Unito, Stati Uniti, Canada e altrove; solo il 4 per cento in Italia.

 

Negli ultimi sei mesi Unicredit ha perso il 50 per cento in Borsa, i profitti sono calati nel primo trimestre, e a fine aprile è stata soccorsa dal fondo Atlante che l’ha sostituita nella ricapitalizzazione di Banca Popolare di Vicenza. Soprattutto tra gli analisti cresce il senso di urgenza per un aumento di capitale da 7,5 miliardi di euro utile a rafforzare il rapporto tra patrimonio e totale dell’attivo ponderato per il rischio che è al 10,8 per cento, poco sopra la soglia obbligatoria del 10; percentuale critica per una banca che è tra le uniche trenta al mondo di rilevanza sistemica. La ricapitalizzazione – che Ghizzoni non ritiene necessaria – è la fonte d’attrito tra le fondazioni, refrattarie ad aprire il portafoglio, e i fondi esteri, inclini invece a farlo rapidamente. I sindacati preoccupati dell’italianità paventano un’ulteriore ascesa dei capitali esteri. Per come l’aveva messa uno dei primi dieci investitori parlando al Financial Times, Unicredit “ha bisogno di un aumento di capitale ma non può farlo con i manager attuali perché hanno perso la fiducia dei mercati”. L’uso del plurale (“i manager”) sembra un attestato di vulnerabilità verso altre figure apicali come il presidente Giuseppe Vita, legato all’establishment di Germania, dove la banca sconta l’esposizione su HypoVereinsbank, o il vicepresidente Fabrizio Palenzona, emanazione di Fondazione Crt, di recente coinvolto – ma il caso è stato archiviato – in un’inchiesta giudiziaria.

 

“L’entrata di investitori esteri porta maggiore attenzione sulla governance e quindi anche su redditività e capitale che gli investitori italiani tendono a sottovalutare perché sono più interessati ai dividendi rispetto a un irrobustimento patrimoniale”, dice Carlo Milani di BEM Research. “Ciò porta a mettere a capo, dall’ad in giù, persone con esperienze all’estero che possono portare know-how più alto rispetto a cerchie italiane dove fa premio il rapporto relazionale tra azionisti di maggioranza e management”. Il “caso Unicredit” fa emergere una tendenza irresistibile. Gli investitori globali sono stati incoraggiati a buttarsi nelle banche italiane col passaggio della Vigilanza dalla Banca d’Italia alla Banca centrale europea e ora, grazie a politiche monetarie accomodanti, hanno liquidità tale da surclassare le fondazioni e poter così indirizzare la gestione di istituti che promettono rendimenti positivi in tempi di tassi azzerati. Non è noto chi sostituirà Ghizzoni: per un po’ il mercato si chiederà “who is the bank?”.

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  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.