L'Ad di Unicredit Federico Ghizzoni (foto LaPresse)

Ma qual è il problema con Unicredit?

Redazione
Le dimissioni dell’ad Ghizzoni a un passo. Governo e Bce in allarme. I conti non sono male, il guaio sono quattro lettere: Sifi

Cosa sta succedendo in Unicredit? Il titolo affondato di oltre il 50% negli ultimi dodici mesi. L’amministratore delegato, Federico Ghizzoni, a un passo dalle dimissioni. Traballante il presidente Giuseppe Vita. La prima linea di manager messa anch’essa in discussione. E forse, per riequilibrare il tutto, un rimpasto del consiglio. Infine, la probabile necessità di un aumento di capitale oppure, per evitarlo, una strategia a base di cessioni di attività, tagli di personale e chiusura di filiali. Dopo mesi di mugugni, mezze ammissioni e retromarce, al vertice della prima banca italiana sta prendendo corpo un vero e proprio ribaltine.
Gianluca Paolucci, Stampa 18/5;

 

Fantasie? Speculazioni? Attiene però ai fatti l’allerta dei consiglieri per una riunione straordinaria del board nella giornata di domani: scopo primo della riunione sarebbe valutare l’addio dell’ad Federico Ghizzoni e relative conseguenze. E già nella riunione del 16 maggio diversi soci – in rappresentanza del 15% circa del capitale – avevano convenuto sulla necessità di un segnale di discontinuità.
L.D., Sole 24 Ore 20/5;

 

Tra i soci pesanti si spera che questo round sia finalmente decisivo, e si esca da una situazione di stallo che ormai dura da mesi: per fare ulteriore chiarezza, c’è chi si aspetta che martedì sul tavolo del consiglio possano arrivare già le dimissioni di Ghizzoni, che proprio in questi giorni avrebbe concordato con l’azienda le condizioni della propria uscita dal gruppo guidato negli ultimi cinque anni.

Marco Ferrando, Sole 24 Ore 21/5;

 

Che il mercato sia particolarmente attento alle vicende Unicredit è provato dalla robusta attività sul titolo che ogni giorno anima la Borsa. Dopo una settimana pesantissima, venerdì l’imminenza di un cambio al vertice è stata premiata con un balzo del 7%, anche in relazione alle vendite ipotizzate di quote delle controllate FinecoBank, Bank Pekao e Yapi Kredi (compreso il business dei pagamenti) che potrebbero evitare o almeno alleggerire la necessità di un aumento di capitale che il mercato stima tra i 5 e i 7 miliardi e che i soci, soprattutto le Fondazioni che rischiano una forte diluizione, vorrebbero assolutamente evitare. Anche perché oggi chiedere capitali ai soci e poi rimunerarli in modo adeguato è una sfida quasi senza speranza ed eventuali operazioni straordinarie, come la cessione di rami d’azienda, potranno essere decise solo dopo l’eventuale uscita dell’ad Ghizzoni.

Camilla Conti, Giornale 21/5;

 

Occorre dunque agire in modo più deciso sulla patrimonializzazione – ripete sempre più spesso il tam tam di Piazza Affari. E consiglieri e principali azionisti (che spaziano dalle fondazioni di Torino e Vicenza agli emiratini del fondo Aabar, fino ai libici divisi tra due capitali) temono che un allungamento eccessivo dei tempi per il cambio della guardia potrebbe indebolire ulteriormente l’istituto. Con conseguenze che sicuramente desterebbero l’interesse della Bce. Non va sottovalutato infatti che Unicredit è una delle Sifi mondiali, ovvero le banche di rilevanza sistemica sulle quali viene esercitato un presidio speciale da parte del Financial stability board in virtù della dimensione e potenzialità destabilizzante.

r. dim., Messaggero 21/5;

 

Il problema della banca guidata da Ghizzoni e il suo peso per il complesso del sistema italiano sta molto in quelle quattro lettere che nei documenti ufficiali figurano accanto al nome di Unicredit. “Sifi” significa “istituzione finanziaria di interesse sistemico”. E proprio perché Unicredit è una banca più importante delle altre, la sola italiana inserita nell’elenco dei 29 colossi globali che sono troppo grandi per poter fallire, le autorità di vigilanza si aspettano che sia ancora più virtuosa della media degli altri istituti. In particolare alle Sifi è richiesto un patrimonio rafforzato e Unicredit deve averlo di almeno il 10% degli impieghi – tradotto significa che per ogni dieci euro che presta deve avere un euro in cassaforte. Il livello attuale della banca è del 10,85%: sopra quindi il livello obbligatorio, ma è un cuscinetto di sicurezza che un mercato sempre ansioso non considera confortante.

Camilla Conti, Giornale 21/5;

 

La preoccupazione del «too big to fail» – la parola d’ordine che salvò i colossi di Wall Street nella crisi del 2008 perché erano, appunto, troppo grandi per fallire senza rischiare di travolgere nella loro caduta tutto il sistema finanziario – è stata sostituita dal «too complex to manage», banche troppo complicate e difficili da gestire. La definizione non è di oggi, risale almeno al 2012, quando fu usata in un dibattito alla Federal Reserve di Saint Louis, ma oggi le megabanche e i loro problemi sono in alto nelle preoccupazioni dei regolatori. Negli Usa si tratta di colossi come Jp Morgan, Bank of America o Citi, in Europa una Deutsche Bank può essere un buon esempio e in Italia Unicredit sconta senza dubbio il fatto di avere una struttura assai più ramificata e globale della concorrente Intesa Sanpaolo, concentrata soprattutto sul mercato nazionale. Se si vuole vederla in una prospettiva di lungo periodo l’impero di Alessandro Profumo, che nei primi Anni 2000 aveva portato il gruppo dalla Germania al Kazakistan, dalla Polonia all’Ucraina, non ha dato i frutti sperati. Anche perché la grande scommessa di un vero mercato finanziario unico europeo non è andata in porto.

Francesco Manacorda, Stampa 10/5;

 

Dunque, soci privati ma problema pubblico. È quindi comprensibile che la questione preoccupi il governo. Manacorda: «Renzi ha da tempo chiaro che il problema bancario è una delle pietre più scivolose sulla quale il governo potrebbe finire a gambe all’aria. Prima il caso Mps che ha gettato più di un’ombra sulla gestione del potere economico da parte del Pd – guardacaso specie quello toscano. Poi, alla fine del 2015, il caso eclatante – se non per dimensioni, almeno per fragore – della risoluzione delle quattro banche che hanno coinvolto nella loro crisi anche gli obbligazionisti, infrangendo rapporti fiduciari che duravano da decenni. E anche qui un’ombra sul governo, specie per il ruolo del padre del ministro Maria Elena Boschi al vertice della Popolare dell’Etruria. Poco più di un mese fa – non a caso sotto la regia del governo – la nascita del fondo Atlante, che garantirà tra l’altro gli aumenti di capitale della Popolare di Vicenza e di Veneto Banca, anch’esse in grandissima difficoltà».

Francesco Manacorda, Stampa 18/5;

 

Proprio l’operazione da un miliardo e mezzo di Popolare di Vicenza avrebbe dovuto essere collocata da Unicredit, che aveva preso alcuni impegni preliminari in questo senso. Non si può dire che Atlante sia nato per salvare la banca di Ghizzoni dal sicuro fallimento dell’aumento della Vicenza, ma di certo Unicredit ha avuto forte sollievo dall’entrata in campo del fondo che si è fatto carico dell’intera operazione.

Francesco Manacorda, Stampa 18/5;

 

Ma che cosa c’entra in ogni caso il governo con una banca privata, come è Unicredit, e con i suoi soci? Sulla carta dei manuali di diritto ed economia proprio nulla. Nella realtà, invece, le preoccupazioni del premier crescono man mano che scendono le quotazioni della banca e soprattutto mentre i suoi soci mostrano di non avere una direzione chiara. Ancora Manacorda: «Se nel caso di Intesa-Sanpaolo alcune Fondazioni forti (Milano, Torino e Firenze) sono riuscite a raggiungere un accordo prima sull’amministratore delegato e poi sul presidente che pare soddisfare tutti; se in Generali la crisi seguita all’uscita dell’ad Mario Greco è stata risolta in tempi e modi abbastanza tranquilli; dalle parti di Unicredit sembrano latitare gli azionisti decisi: gli emiratini di Aabar primi soci con il 5 e rotti per cento sono decisamente insoddisfatti dell’investimento, accanto a loro c’è la Banca centrale della Libia che per ovvi motivi soffre oggi anche dello scontro fra Tripoli e Tobruk. E le Fondazioni azioniste, quella di Torino e quella di Verona, che si muovono di fatto sotto l’onnipresente e inesausta regia di Fabrizio Palenzona e Paolo Biasi, da una parte hanno pesi ormai sotto il 4% del capitale e dall’altra provano a mantenere intatto il loro potere».

Francesco Manacorda, Stampa 18/5;

 

Tornando al ricambio della governance, per quanto prematuro, continuano a circolare i nomi dei possibili candidati a prendere il posto di Ghizzoni. In pole position rimarrebbero Marco Morelli, vice presidente Bofa-Merrill Lynch per Europa e Medio oriente, Alberto Nagel di Mediobanca (che però non si è detto disponibile), Gaetano Miccichè di Intesa, Flavio Valeri (Deutsche Bank Italia), a cui si aggiungerebbe il francese Jean-Pierre Mustier, già a capo del Cib UniCredit. Fin qui le ipotesi per il ceo. Ma come detto c’è chi non esclude anche un passo indietro di Giuseppe Vita (che potrebbe essere sostituito da Lucrezia Reichlin, consigliere eletto dai fondi, o dallo stesso Ghizzoni) e un rimescolamento più ampio delle carte in cda, con riequilibrio dei rapporti di forze tra maggioranza e minoranza.

Marco Ferrando, Sole 24 Ore 21/5;

 

In piazza Gae Aulenti, intanto, nulla è cambiato. E nessuno conferma l’ipotesi di un cda al quale Ghizzoni potrebbe presentarsi dimissionario. Certo, fa notare qualcuno appassionato di finanza ma anche di calcio, sarebbe un pessimo biglietto da visita per la banca e per gli stessi suoi azionisti presentarsi con un management in uscita a San Siro sabato prossimo dove il Real e l’Atletico Madrid si giocheranno la finale di Champions League. Di cui Unicredit, che farà gli onori di casa a Milano, è sponsor ufficiale.

Camilla Conti, Giornale 21/5.

 

 

a cura di Francesco Billi

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